A PASSEGGIO CON LA SEMPLICITA’: INTERVISTA AD ALESSIO LUCARONI DEI MALICK & THE SMOOTH

A PASSEGGIO CON LA SEMPLICITA’: INTERVISTA AD ALESSIO LUCARONI DEI MALICK & THE SMOOTH

A due giorni dall’esordio dei Malick & The Smooth a Trasimeno Blues, incontro Alessio per telefono. Per intervistarlo decido di sedermi all’aria aperta e mi trovo una postazione comoda mentre un vento benefico agita le fronde degli alberi intorno. Mi sarebbe piaciuto passeggiare, addentrandomi nelle pieghe della vita di questo giovane musicista e, in effetti, nonostante sia seduta, immersa nel verde, ho la sensazione che le parole tra noi si muovano a passo d’uomo, verso mete secondarie rispetto al viaggio. Decido di iniziare con una domanda di sostanza che esplori l’identità, quell’essenza che attesta l’esistenza, che ci permette di dire “Io sono”.

  • D: Parlami della tua identità di musicista. Che cos’è che ti permette di esistere come musicista e come membro del gruppo dei Malick & The Smooth?
  • R: È un concetto intenso. In questo percorso musicale mi sono sempre sentito trascinato dalle emozioni fin da quando ho cominciato, alla tenera età di sei anni. Non era tanto il saper suonare, era altro: i moti interiori che mi trasmetteva lo strumento. Sin da piccolo, quando vedevo video di concerti, mi rendevo conto del botta e risposta emotivo tra chi è sul palco e chi sta guardando e questo mi ha sempre affascinato tantissimo. Quando, con il tempo, ho cominciato a suonare, ho ritrovato questo trasporto emotivo, sia con lo strumento che con le persone. E lo trovo moltissimo con i Malick & The Smooth perché, oltre ad essere musicisti che appartengono allo stesso gruppo, siamo amici e credo che questo agevoli molto la trasmissione delle emozioni sia tra di noi che verso qualcuno. L’emotività è un aspetto molto importante che ci permette di identificarci nel mondo esterno e nel mondo musicale odierno.

Mi chiedo cosa questo trasporto possa significare per il pubblico. Alzarsi a ballare può essere un indicatore che rende evidente l’essermi lasciata trasportare? Ce ne sono altri più intimi, più sottili? Forse! Per esempio quando la mente si ritira per lasciare il posto “a me”. Mi ricordo di tutte le volte che la musica di Trasimeno Blues mi ha fatto alzare dai gradoni della Rocca a Castiglion del Lago, o dal prato o dal selciato della piazza di uno dei comuni che ogni anno ospitano il Festival. Per me, un corpo che balla è un corpo che celebra l’ascolto della musica. C’è un movimento, c’è sempre un movimento, almeno una danza interiore ad agitare l’anima, anche quando la melodia è soft. La musica ti muove dentro e fuori. È il ritmo, la melodia, il diverso carattere delle singole persone, il loro condizionamento culturale, il loro stato d’animo a far sì che tale movimento sia condivisibile o privato, eclatante o composto, visibile o impercettibile. Tutto di te è lì, in quell’esperienza musicale in cui anche i muscoli, le ossa, la pelle, e non solo l’apparato sensoriale, reagiscono, si esprimono, in una danza, in un raccoglimento, e tu ti senti felice. Per la Programmazione Neuro Linguistica lo stato d’animo cambia, in una dimensione fisiologica, modificando il corpo nella sua postura e nei suoi movimenti. Secondo il modello delle catene muscolari di Benoit Lesage, medico e danzaterapeuta, la catena muscolare antero-posteriore è quella che permette di saltare, di fare torsioni con la colonna vertebrale, di muovere il bacino ed è chiamata la catena della gioia, proprio perché pare attivi tale gamma emotiva. Muovere il corpo è una porta di felicità esattamente come allineare tutte le dimensioni di sé per farle convergere nel qui ed ora, per esserci, con tutto se stesso, in quello che si sta vivendo in quel momento, a prescindere dalla sua sostanza. E, a pensarci bene, è quello che fanno i bambini quando giocano o esplorano il mondo.

  • D: Che intendi di preciso quando parli di trasporto, di essere trascinato.
  • R: È un discorso molto ampio. Quello che intendo è che ogni brano ha un mood, crea un’atmosfera diversa. Lasciarmi trasportare significa immergermi in quel mood e, di conseguenza, rispecchiare le mie sensazioni sullo strumento. Magari un colpo viene dato con un’intensità diversa, c’è un’ispirazione che mi porta a colpire una parte dello strumento invece che un’altra per cercare di trasmettere all’esterno quello che sto vivendo. Credo che questo immedesimarsi nella canzone sia fondamentale. Soprattutto quando lo vedi anche negli altri. Per esempio con i Malick & The Smooth questo è molto presente perché lo vedo nelle facce, nell’espressività. Vuol dire molto l’espressività di un musicista che sta suonando, ti fa capire che cosa sente, non che cosa gli passa per la testa. È un discorso poco razionale, molto emotivo perché comunque sia di quello si parla. Vederlo negli altri sviluppa anche un’interplay tra di noi. È veramente appagante: sentiamo che la gente ci ascolta, è lì con noi. Per esempio, nei pezzi che sono più tranquilli, li percepisci comunque connessi. Questo significa che riusciamo a trasmettere qualcosa che non sia necessariamente incalzante, incitante a ballare, ma che sia più intimo.
  • D: Hai detto che essere amici tra di voi facilita il processo emotivo che si attiva con la musica. Dalla mia prospettiva immagino il mondo composto di elementi, tutti, bipolari. Ho abbandonato da tempo il dualismo degli opposti positivo/negativo in favore di polarità integrate e compresenti. In un rapporto di amicizia, il polo dell’afflato aggregante è quasi scontato. Che mi dici dell’altro polo? Il fatto che siate amici potrebbe anche danneggiare alcuni aspetti del vostro processo artistico?
  • R: L’altro polo si manifesta spesso, tuttavia tra noi c’è sempre stato un rispetto reciproco, perlomeno per le idee che ognuno ha e che vuole condividere con gli altri. Ciò è fondamentale, sia in un rapporto strettamente professionale musicale, sia amicale, no? Credo che il rispetto sia fondamentale. Negli anni non abbiamo mai intaccato la nostra amicizia. È possibile avere degli alti e bassi come in qualsiasi gruppo però credo che la nostra amicizia sia talmente forte, da permetterci di andare avanti anche nei momenti no come è giusto che sia.

Mi rendo conto che Alessio ha aggirato la provocazione, interpretando la domanda secondo categorie note. Così, la mia intenzione di esplorare se l’essere a proprio agio possa frenare processi creativi o tecnici, cade nel vuoto e ne percepisco l’eco fino a che non si deposita sulla terra come concime per altri semi. Mi oriento sul pratico per la domanda successiva.

  • D: Come emergenti, siete ancora costretti a preoccuparvi di come campare, probabilmente non riuscite ancora a vivere di musica, tuttavia iniziate a vedere che aumentano le date. Com’è questo rapporto tra essere dentro un viaggio di affermazione musicale e magari dover fare altri lavori per sbarcare il lunario?
  • R: È un argomento che accomuna molte persone, perlomeno quelle che decidono di fare nella loro vita il musicista e, personalmente, mi sono ritrovato, per un periodo, a dover sia lavorare che suonare. Sentivo che gli sforzi erano concentrati a mandare avanti sempre la musica. Devo dire che è difficile perché sei con la testa in due universi diversi e fisicamente è molto dispendioso. È proprio per questo che un giorno ho deciso di buttarmi completamente nel mondo della musica. Era l’unica cosa che mi dava soddisfazione. Comunque sia, quando suoni in concerto e vedi tutte le persone che sono coinvolte emotivamente, che stanno bene tra di loro e they’re having a good time, come si suol dire, è veramente appagante. Credo che bisognerebbe farlo quel salto nel vuoto e anche se inizialmente i rientri in termini di soldi non sono tanti, bisogna provarci.

Alessio, quando parla di essere con la testa in due universi, ride. Un riso che mi arriva ricco di immagini che molti conoscono bene e che occupano tutti gli spazi disponibili: le corse dal posto di lavoro alle prove, l’essere sempre in ritardo dappertutto e scoprirsi fantasiosi nelle giustificazioni, perdere il senso del tempo mentre sei nel garage abusivo a suonare e risvegliarti sotto shock per precipitarti da un’altra parte, arrivare al lavoro pieno di polvere e lasciare intendere che sei caduto, spendere tutti i soldi guadagnati per investire nel proprio sogno e via così. Rivisitare questi ricordi è comico, mette buonumore e connette con il bagaglio energetico in dotazione agli artisti e a tutti coloro che non rinunciano ai propri sogni.

  • D: Hai paura di non riuscire a garantirti la sopravvivenza con la musica? Che pensano i tuoi genitori? Che tipo di genitori hai nella relazione con questa tua scelta?
  • R: Mia madre è stata una cantante di un gruppo umbro e ha avuto l’opportunità di aprire concerti di artisti molto importanti, se non erro aprì addirittura un concerto di De André. Sa che cosa vuol dire vivere di musica, vivere una vita da nomade, spostarsi di città in città per un tour. Quindi, nonostante le condizioni della tipica vita da musicista, i miei mi hanno sempre sostenuto e penso di ritenermi fortunato da questo punto di vista. Non è semplice: vivere di musica è difficile. Credo, però, che con il giusto supporto e le giuste persone tutto si possa raggiungere, specialmente insieme ad un gruppo di amici che ti accompagna ormai da parecchi anni.

Wow, figlio d’arte, che meraviglia. Penso che ogni bambino dovrebbe avere almeno un genitore artista e che la scuola, già dal nido, dovrebbe investire su tutte le forme d’arte, per dare la possibilità ai talenti di rivelarsi e dovrebbe investire anche sulla natura, per permettere di non dimenticare chi siamo. È inevitabile riflettere su quanto per tutti, e in particolare per gli artisti, la famiglia e le relazioni giochino ruoli determinanti oltre ad essere fonte di eredità di alcune caratteristiche strategiche.

  • D: Cosa pensi di avere ereditato dai tuoi genitori rispetto alla tua identità artistica?
  • R: Sicuramente l’aspetto di farmi trascinare molto dalle emozioni l’ho preso da mia madre perché so della sua emotività per quanto riguarda la musica. Anche lei si fa trasportare completamente e credo che sia una delle cose più belle che la musica possa portare. Da mio padre, che è lo sportivo della famiglia, penso di aver ereditato lo spirito di gruppo, la capacità di cercare punti di incontro, di ragionare insieme di fronte ai conflitti. Quando c’è un momento di stallo, più pesante, cerco di risollevare gli animi, di calmare tutti e di rimetterci in marcia, sulla nostra strada, e senza far passare questo per un gioco.

Le parole di Alessio mi fanno riflettere. Nutrire abilità di mediazione è un ingrediente necessario per tenere unito un gruppo ed entra a pieno titolo negli ingredienti di successo, quali il rigore nello studio per progredire tecnicamente, la disponibilità ad aprirsi totalmente e la tenacia nel non arrendersi alle dure leggi del mercato, perché persone come Gianluca di Maggio non si trovano dietro l’angolo. Ognuno in cuor suo lo sa se si sta mettendo in gioco fino in fondo o se deve ancora pulirsi da rimasugli di dubbio e se ci rimarrà seppellito sotto quel dubbio. Un po’ come quando ci si innamora. Lo sappiamo sempre se siamo corrisposti e a che livello. Lo sappiamo che nessuno arriva e nessuno resta se non è disposto a giocarsi il tutto per tutto.

  • D: Fino a che punto saresti disposto ad arrivare pur di realizzare il tuo sogno?
  • R: Sono arrivato al punto che me la voglio giocare fino in fondo. È più un discorso di passione che mi abita da quando avevo 6 anni e che non è mai andata scemando. Non c’è stato mai un periodo della mia vita in cui io abbia pensato di lasciare, di voler fare altro. Anzi, il voler essere musicista, anche se non li ha compromessi, ha frenato tanti altri aspetti della mia vita, per esempio l’università. Ho sempre dato la precedenza al suonare, prima con altri gruppi e ora nel sodalizio con i Malick & The Smooth. È stato più forte di me. E quindi, ecco, voglio lasciarmi trasportare da questa passione e sicuramente farò di tutto per raggiungere l’obiettivo. Questo è poco ma sicuro.

Sarebbe interessante esplorare i confini di questo “fare di tutto”: la natura umana da sempre si declina nel suo schierarsi tra etica e spregiudicatezza e il confine tra queste due dimensioni varia da persona a persona. Tuttavia, sento che Alessio ha la faccia e la voce del “bravo ragazzo”, non è attratto dalla scena per la scena, non è interessato a scandalizzare per affermarsi, semplicemente ama suonare e sta convogliando le sue energie, in sinergia con gli altri membri del gruppo, per trasformare in reddito ciò che più lo vivifica. Alla fine è una questione di direzione del proprio sguardo, di pesi sulla bilancia, di quanto pesa quell’amore.

  • D: Cosa c’è di diverso tra chi realizza se stesso, dando compimento ad una propria passione, ad un proprio talento, e chi ci rinuncia?
  • R: Entrambi hanno un sogno, ma non basta. Probabilmente chi ha rinunciato non se l’è sentita di arrivare fino in fondo perché, me ne rendo conto, è un po’ un salto nel vuoto. Fino a quando non arrivi al tuo obiettivo, quello di avere un nome, di essere rilevante nell’ambiente musicale, è un vero salto nel vuoto. Della serie che non hai la certezza di che cosa accadrà e, secondo me, è proprio in quel momento, durante quel periodo – si spera di transizione – che bisogna tirar fuori artigli e denti e tener duro. Bisogna crederci e, insieme alle persone giuste, al gruppo giusto, si riesce ad ottenere quello che ci si era prefissati.

Alessio ride di nuovo, e lo fa quando parla di tirare fuori gli artigli e i denti. Mi intenerisco, perché ho la sensazione che usi una metafora non adatta al suo carattere, pur consapevole di aver lottato duramente, per applicarsi e non mollare.

  • D: Raccontami il tuo incontro con il blues e che rapporto hai adesso con questo genere musicale.
  • R: Che tu ci creda o no il mio primo incontro col blues fu proprio con Malick, quasi 8 anni fa, al liceo. Venne organizzato un festival. Si crearono dei gruppi all’interno della scuola che si sarebbero esibiti a fine anno e ci incontrammo proprio in quell’occasione. Successe che dovetti sostituire il batterista che avrebbe dovuto suonare con il suo gruppo. Suonammo e facemmo quasi una jam session. Fu veramente interessante perché per me era un qualcosa di nuovo. Vedevo che riuscivo ad avere un buon interplay con tutti e mi è piaciuto molto. Da quel momento, nel corso dei vari anni, con Malick siamo diventati molto amici e abbiamo militato in diverse formazioni insieme fino ad arrivare ai Malick & The Smooth. Devo dire che la scoperta del blues mi ha aiutato molto nel diventare il musicista che sono adesso. Mi ha permesso di sentire cose diverse, groove diversi. Non è il rock, per esempio Vasco Rossi o Ligabue. Si tratta di artisti come Stevie Wonder che magari è anche la parte un po’ piu “funkettona” del blues, come Stevie Ray Vaughan. Ci sono tante sfaccettature nel blues. L’ascolto di questo genere mi ha permesso di adottare diverse sfumature, diversi lick, diversi utilizzi dello strumento per andare oltre le mie possibilità.
  • D: Tu suoni il cajon che è uno strumento che amo molto. Sono convinta che ogni strumento, come ogni elemento della natura, oltre a permettere ai musicisti di creare musica, svolga una duplice funzione: da una parte abbia qualcosa di specifico da insegnare, cioè è maestro di qualcosa, e dall’altra si rende funzionale a qualcosa che abbiamo come caratteristica e che, grazie a quell’elemento, prende forma, luce, vigore. A te, che cosa insegna il cajon? In che cosa ti è maestro e in che cosa ti facilita? Che cosa illumina di te?
  • R: Ho scoperto il cajon recentemente, da qualche anno. Da quando ci ho letteralmente messo le mani su, ho imparato a saper aspettare. È uno strumento semplice e dispone principalmente di due suoni, quindi il saperlo suonare vuol dire saperlo utilizzare nella maniera corretta a livello di gruppo. Noi siamo un trio prettamente acustico. In questa dimensione la percussione non dev’essere invasiva, deve accompagnare la struttura di un brano. Nella sua semplicità deve essere un sostegno del pezzo, un accento, una punteggiatura, un’enfasi, un sussurro. È un po’ un sostituto della batteria solo che è molto più semplice. Lo è a tal punto che lo si suona con le mani. Questo strumento è stato per me un maestro di semplicità: ha sicuramente ampliato e sottolineato la semplicità che già era parte di me. Per il mio modo di percepire la musica, in un brano acustico la semplicità regna sovrana. Il cajon è uno strumento ritmico ma anche molto semplice ed effettivamente io mi rispecchio molto in questo. Sono profondamente convinto che le cose più semplici siano quelle con più effetto e che arrivino di più a tutti. Il cajon ha principalmente due suoni quindi io con due suoni riesco a sostenere sia il gruppo che a creare un’atmosfera. Alla semplicità si unisce una certa ricercatezza. La tipologia di suono è diversa da quella della batteria, è più raffinata. Quindi mi sento di dire che mi aiuta a tirar fuori la mia semplicità sia a livello musicale che a livello interpersonale, semplicità e creatività in un unico scenario.

Le parole di Alessio evocano una figura spirituale e umana tra le più affascinanti ed alte che siano mai esistite: San Francesco, che ancora oggi, a distanza di secoli, ci invita ad essere semplici. E l’Umbria lo sa, come il mondo intero, del resto.

  • D:Un minimo di struttura per un massimo di esplorazione” è una famosa massima di Herns Duplan che riassume il senso del suo lavoro e il senso della creazione artistica in cui nulla è gratuito. Ti risuona questo collegato al tuo strumento?
  • R: Devo dire che è una bellissima citazione, non l’avevo mai sentita e rispecchia molto quello che penso dello strumento. La batteria in generale può sembrare uno strumento complesso, sicuramente, a livello tecnico, inizialmente, è complesso. In un genere come il blues, secondo me, non conta dimostrare di saper fare cose complicate, contano l’anima, la passione, le sensazioni che il pezzo può suscitare. Passando, per esempio, da “A man’s World”, che è, penso, uno dei capisaldi della musica in generale, a “Jailhouse rock”, per esempio, o a “Hit the road Jack”, questo concetto è evidente: sono brani che a livello ritmico non sono complessi eppure trasmettono un qualcosa, entrano dentro. Questo per dire che la semplicità in un certo genere di musica è un’ottima chiave per aprire mondi.

Ci vuole grande talento per essere semplici. Mio padre me lo ricordava spesso. E ci vuole grande centratura. L’intervista volge al termine e sento la connessione con lo sguardo panoramico sul festival di Trasimeno Blues. Quando un direttore di un festival investe in artisti emergenti c’è una sensibilità particolare. Io non so cosa si siano detti a fine concerto i Malick & The Smooth quando si sono salutati con Gianluca Di Maggio. Magari in futuro, quando saranno saggi e famosi (perché ricchi lo sono già) lo racconteranno in qualche loro concerto. Quello che mi echeggia dentro è la curiosità di sapere cosa abita l’immaginario di Alessio rispetto al direttore del Festival. Mi piacerebbe che Alessio immaginasse che cosa gli direbbe ora, a conclusione di questa intervista in cui ho bussato alle porte della sua interiorità, sono entrata in alcune delle sue stanze, quelle più presentabili, forse, e abbiamo conversato con quella semplicità che connota il cajon per come il musicista l’ha descritto.

  • D: Se ti connettessi con Gianluca Di Maggio, con la sua responsabilità di gestire un festival e di farlo con grande qualità, cosa pensi che ti direbbe, fuori dai denti? Se avessi la possibilità di ascoltare senza filtri le sue parole cosi come gli si formulano nella testa che ti direbbe?
  • R: Di primo acchitto Gianluca mi è sembrato molto attento, con un forte senso critico, una persona che tiene a quello che fa. Un festival del calibro del Trasimeno Blues è impegnativo da organizzare, soprattutto se si vuole garantire un livello alto. Il fatto che ci abbia scelto come uno dei due gruppi emergenti in programma, per me è una dimostrazione di fiducia. Per noi è un’opportunità per fare bene e credo che stia a noi di restituirgli nel miglior modo possibile questo suo fidarsi di noi. Credo che ci direbbe che ci sta dando un’opportunità per dare il meglio di noi, per farci conoscere e che si aspetta che noi rispondiamo nel migliore dei modi. Ci direbbe di continuare per la nostra strada, di crescere.
  • D: Che vuol dire fare bene?
  • R: Intendo essere noi stessi e magari non farci influenzare, nel senso di non montarci la testa per una chiamata di un certo livello, come quella di Trasimeno Blues, quanto piuttosto di guardarci dentro anche come gruppo e lavorare sodo. Se Gianluca ha puntato su di noi, è perché ha visto, e io spero anche sentito, un qualcosa di cui forse non siamo coscienti e che dobbiamo far emergere. Qualcosa che ci identifichi. Per fare bene intendo esibirci come abbiamo sempre fatto senza lasciarci suggestionare dalla grandezza del Festival. Per me, per Federico, per Malick è un’opportunità enorme e vogliamo farla valere, nel senso di attribuirle valore. Vogliamo investire tutto quello che siamo nel fare musica, senza riserve.

Il vento si è placato. Le ore del giorno, a ridosso del pranzo, si fanno più calde ed è come se indossassero il mese di luglio, il mese del festival di Trasimeno Blues, per ritualizzare la fine di questa intervista. Nel cuore si deposita tutta la gratitudine per aver incontrato la giovinezza che, ancora acerba, ha il coraggio di credere in se stessa. Con Alessio ci salutiamo ringraziandoci reciprocamente e abbiamo entrambi la sensazione di esserci parlati davvero. Alessio mi confessa che non si aspettava domande che lo mandassero così nel profondo già dall’inizio e io sento sempre di più che non ha senso perdere tempo a proteggere la vita. È la vita stessa la nostra protezione. Se si parla davvero, come se si suona davvero, se si vive davvero, le cose succedono davvero ed è un bel viaggio. Sulla parete alle mie spalle, troneggia la meridiana che mio padre ha messo a custodia ed ispirazione della casa, su cui ha fatto incidere una frase di Giovenale che recita: “Fortem posce animum mortis terrore carentem, nesciat irasci, cupiat nihil” (Chiedi un animo forte, che non tema la morte, che ignori la collera, che non abbia cupidigia). Guardo la meridiana e mi astraggo tra i ricordi e le speranze, intrisa di nostalgia. La felicità non è assenza di dolore, è presenza d’amore. Sospesa tra passato e futuro, mi sento pienamente sostenuta da tutta la felicità che ho avuto il coraggio di invitare a casa mia, con la consapevolezza che ha sempre accettato l’invito, dove, spesso, ad attenderla, c’era qualcosa di blues.

(M.P.)