Serata sensazionale quella tenuta al Parco Regina Margherita di Panicale, incendiato dall’energia di Lebron Johnson e la sua band: Andy Pitt alla chitarra, Alberto Pavesi alla batteria, Filippo Romano alle tastiere e all’organo Hammond, Davide Medicina al basso. Tutti musicisti strepitosi, hanno regalato al pubblico del festival un concerto trascinante, proponendo prevalentemente i brani del loro album “Anonymous” alternati a brani di repertorio attinti dai grandi Big del blues. Hanno catturato tutti noi dal primo ascolto, con le loro sonorità moderne contaminate dal funky, soul e blues, piene di groove, sentimento e tantissima energia. Prima di esibirsi, li incontriamo a cena per una brevissima intervista in cui, oltre all’emozione di rivederci, perché è una band che ci è entrata nel cuore, approfittiamo per chiedere a Filippo Romano, il tastierista new entry, qualcosa in merito al suo apporto artistico in un gruppo già consolidato. “Quando entri in una band già formata, composta da musicisti forti individualmente e come band (particolare non banale, soprattutto oggi in cui è facile mettere insieme musicisti per una serata, mentre non è altrettanto facile mettere in piedi un gruppo), inserirsi non è semplice: devi entrarci in punta di piedi e devi essere forte anche tu, oltre a dover percepire i margini di compatibilità a livello emotivo e di reciprocità artistica e umana su cui poter costruire qualcosa di comune. Questo è l’aspetto più delicato che, nel nostro caso, abbiamo risolto nel giro di un paio di serate”. Ognuno di loro ha la sua storia; Johnson ha una sua storia molto toccante per esempio. Messi insieme nel linguaggio musicale, i loro vissuti diventano una storia comune che riescono a trasmettere al pubblico oltre a trasformarla in ispirazione per la loro produzione artistica. Musicalmente sono affiatatissimi e questo permette ad ognuno di loro di arricchire la prestazione con dialoghi tra strumenti e improvvisazioni creative che sorprendono. Presenti, sul pezzo, si capiscono al volo e ci confessano che gli capita di suonare anche senza prove, come è successo proprio nella serata di esordio di Filippo nella band, in cui, a parte Andy Pitt, con cui già si conoscevano, si sono presentati tra loro, sotto lo sguardo incredulo del gestore del locale che, a fine concerto, probabilmente ha creduto che quella presentazione fosse una gag perché, da come hanno suonato, non era possibile che non si conoscessero. Alla narrazione si aggancia Andrea Dini, uno dei pilastri fondamentali del Festival, sempre disponibile e garbato con tutti, riferimento assoluto per tutti nel dietro le quinte di Trasimeno Blues e custode delle emozioni racchiuse nella memoria di chi il festival l’ha ideato e di chi c’è stato dall’inizio: “In occasione di un anniversario dell’organo Hammond, organizzammo una mostra e invitammo Tony Monaco per un concerto che si sarebbe tenuto in piazza a Città della Pieve in cui avrebbe suonato con altri due musicisti, un chitarrista e un batterista, provenienti uno da Milano e uno da Roma. Li andai a prendere alla stazione e li portai a cena. Quando salirono sul palco, Tony, rivolgendosi ai musicisti, dice: ‘Che vulimm sona?’, con il suo accento italoamericano: non si erano mai visti prima e hanno messo in piedi un concerto improvvisato incredibile”. Il racconto di Andrea ci connette con la comune convinzione che, se c’è apertura, ascolto e altissima professionalità, può succedere di suonare come se ci si conoscesse da sempre, incontrandosi per la prima volta. Inizia così l’ingresso di Filippo Romano nella band, reclutato da Andy Pitt, capace di scovare talenti e che ci racconta: “Io e Filippo abitiamo vicini. Una sera sono andato ad ascoltarlo suonare in una band di amici e ho subito pensato che, qualora avessimo avuto bisogno di un tastierista, sarebbe stata la persona giusta. Quando abbiamo avuto bisogno di un organista, l’ho contattato, chiarendo che, per entrare nella band, avrebbe dovuto attrezzarsi col Leslie e l’Hammond. Beh, lui è andato a prendersi sia il Leslie che l’organo”. Ridiamo tutti a cena per questi aneddoti, raccontati dalla band e da Andrea Dini, in un clima rilassato e amicale, nonostante fossimo stretti con i tempi.
Anche la location del concerto è particolare: gli organizzatori non ne sbagliano una. Dietro il palco, posizionato in basso rispetto ai gradoni dell’anfiteatro immerso in mezzo agli alberi, alle spalle della band, c’è un ampio spazio che ha permesso a molte persone di appropriarsene e scatenarsi come fossero in una vera e propria pista da ballo. A ogni brano, questo spazio si riempiva sempre di più anche perché, nonostante fosse la parte retrostante al palco, i musicisti hanno avuto l’abilità di non lasciarla mai in ombra, tanto che Lebron Johnson si è anche spostato andando a cantare e ballare con questa parte di pubblico. Della band colpisce la loro freschezza e la loro genuina energia: al di là della bravura tecnica, si divertono mentre si esibiscono, suonano con allegria, coinvolgimento e si percepisce che per loro il palco di Trasimeno Blues ha un valore particolare. “E’ un onore tornare al Festival del Trasimeno. Stiamo chiudendo tanti cerchi e sono molto felice per questo”, ci dice Lebron Johnson durante l’intervista. È la terza volta che suonano in cartellone al Festival e, ogni volta, riescono a sorprenderci. Una band affiatata, capace di ascoltarsi e di comunicare fino a lasciare che gli assoli vengano da sé, senza preavviso, in un flusso musicale travolgente. Emozionante percepire anche il genuino orgoglio nel presentare il loro primo album: Anonymous appunto (prodotto da Riccardo Rinaldi aka Ohm Guru – Neffa, Sud Sound System, Colle Der Fomento), che racchiude un esperimento davvero interessante. Il blues di Lebron Johnson e la sua band è all’insegna della vitalità, come testimoniato da brani che hanno risollevato il morale anche a noi, quali “Get over your past” o “Better days“. Quest’ultimo motivo ci ricorda quanto la vita sia veramente un dono e quanto sia sprecato viverla nel grigiore del malumore e della lamentela; la vita va vissuta con occhi disponibili a catturarne ogni vivida sfumatura, resa semplicemente più sgargiante rispetto all’inevitabile cupezza che la può accompagnare. La soul, funky, blues band ci regala anche un suggerimento per trovare il modo di uscire dalle pieghe pesanti della vita: l’ironia che, insieme all’autoironia, è stata una costante durante la serata e non ha tolto dignità a momenti più riflessivi e malinconici, come quello in cui il cantante ci ha riportato alla mente le difficili situazioni vissute dai migranti: la separazione dai propri familiari, l’immanenza nel cuore del ricordo della terra natale, custodita nel privato e personale forziere della nostalgia. Toccante anche il riferimento autobiografico dello stesso Johnson, quando racconta la sua esperienza di migrazione e la sua tendenza a definirsi niger-italiano, non certo per una competizione tra le due aree geografiche e i due popoli, quanto piuttosto per restare connesso con le sue radici. Ed è proprio questa peculiarità che gli permette di saper valorizzare l’Italia, nonostante le tante contraddizioni, come il paese che lo vede affermarsi sempre di più come artista, dopo l’incontro con Andy Pitt a cui va il merito di aver messo in piedi questa band che non delude mai. Lebron Johnson, si confida con il pubblico consegnando il suo desiderio di tornare in Nigeria con in mano la possibilità di una vita migliore. È una band che lascia il segno, soprattutto per la qualità della musica e la complicità, unica nel suo genere, tra i membri del gruppo: ogni movenza di ognuno di loro è in relazione con gli altri, in un continuo rimbalzo di sguardi e sorrisi arricchiti da affiatati avvicinamenti, l’un l’altro, durante l’esibizione. I musicisti hanno confessato che si tratta di una complicità talmente potente che possono permettersi di incontrarsi un paio di volte all’anno per provare. La loro musica, per dirla con Hegel, è un’arte che si produce da sé. In questa unità, compattezza di complicità e bravura, sono perfettamente visibili le singole personalità, tutte diverse, di ogni componente: la vivacità e la naturalezza del bassista Davide Medicina, con il suo estro d’impatto sul palco; la levatura tecnica ed espressiva di Alberto Pavesi che riesce ad essere un tutt’uno con la sua batteria, protagonista del finale ad effetto in cu esegue un assolo incredibile; la versatilità e l’entusiasmo di Filippo Romano, alla tastiera e all’organo hammond che, nonostante sia un nuovo componente della band, è perfettamente amalgamato nel flusso musicale e interpretativo comune, con i suoi sorprendenti movimenti del corpo che riesce ad esprimere persino stando seduto; e, infine, last but not least, Andy Pitt, ideatore del progetto, un chitarrista fenomenale in grado di dominare la sua chitarra a tal punto da poterne essere al contempo esploratore, sempre alla ricerca di nuove sonorità e sempre lucido e presente a se stesso, come quando, in un momento di frenesia, gli è caduto il plettro e ha continuato a far vibrare le sue corde come nulla fosse senza che nessuno se ne accorgesse, o lasciando il dubbio che fosse fatto apposta. Ci vuole una band così per accogliere la voce raffinata di Lebron Johnson che unisce al canto doti attoriali tipiche di chi naviga la scena come un talento naturale, data la giovanissima età: per le sue movenze del corpo, i piccoli gesti con cui, durante tutto il concerto, ha mimato e dipinto ogni brano, si rivela essere un animale da palcoscenico: tra la Nigeria e l’Italia, è il palco la sua casa e la musica la voce della sua anima. Per definire questo concerto, non c’è niente di meglio di quello che lo stesso Lebron ha espresso ad un certo punto della serata e che racchiude il senso dell’esperienza che abbiamo condiviso nella quarta giornata di Trasimeno Blues: “Ci sono persone che non hanno capito cosa vuol dire essere a un festival blues, non è un concerto jazz qui. Qui serve essere una festa!“. Questa band si caratterizza per l’umiltà basata su un enorme lavoro tecnico, la freschezza e l’ascolto, qualità che fanno volare la loro musica. Quando a cena chiediamo ad Andy Pitt cosa ci riserverà la serata, rispondono tutti in coro: “The moon is not a cheese” (la luna non è un formaggio) e in questa risposta c’è tutto il loro senso musicale e interpretativo. Quella luna, che Davide Medicina percepisce come il cerchio nel cielo che custodisce l’essenza del loro progetto, a volte coperta dalle nuvole, a volte più luminosa, ci piace pensare che questa sera, si sia goduta il concerto, mostrando la sua parte più lucente. Quella luna che, in questo frizzante appuntamento blues, nonostante da lassù stia lì ad osservare gli esseri umani sublimare la vita in ogni forma d’arte, senza dubbio, quando si ritira in privato, per stare in compagnia di se stessa, mette su un disco blues.
(Elisabetta Tinarelli, Maria L.T. Pasquarella)