DIARIO DI UN’INTERVISTA A MALICK NDIAYE DEI MALICK & THE SMOOTH

DIARIO DI UN’INTERVISTA A MALICK NDIAYE DEI MALICK & THE SMOOTH

Arrivo a Roma venerdì sera e mi godo l’aria tipicamente estiva di una città che ha voglia di vacanza. So che Malick è in procinto di partire per Parigi con la sua fidanzata e sarà di passaggio a casa dei nonni, sul litorale laziale, per un saluto. Tornerà in tempo per il concerto del 22 maggio, prima delle due date riservate ai gruppi emergenti in cartellone a Trasimeno Blues, in cui si esibirà con il gruppo Malick & The Smooth. Prendo accordi per incontrarci nel pomeriggio e, appena lo raggiungo, mi infilo dentro un ritmo che sa di famiglia. Ci posizioniamo in veranda da cui si percepisce l’aria salmastra e una brezza ristoratrice che arrivano dal mare, quasi a volerci far sentire accolti, dal luogo, dai reciproci cuori, dal silenzio che precede le domande e le risposte dell’intervista. Il dialogo con Malick è un viaggio delicato e rispettoso in un sogno che spinge, con eleganza ed onestà, per emergere. Sarà per il pomeriggio che si diluisce nella sera, sarà per la sensazione di essere piombata in un contesto intimo, sarà per il piacere di rivedere Malick dopo un bel po’ di tempo, fatto sta che parto in quarta con una domanda provocatoria:

  • D: Che c’entri tu col blues?

Malick resta qualche secondo interdetto, non si aspetta di entrare nel nocciolo della questione senza tergiversare e ha l’onestà di guardare dentro di sé per cercare la risposta più vera che possa trovare.

  • R: Il blues, come un po’ tutta la black music, è un genere che mi appartiene, sia per quanto riguarda le emozioni che fa scaturire, sia per le note che va a toccare. Lo sento mio e mi rendo conto che quando vado ad eseguire pezzi blues, soul, R&B, riesco ad emozionarmi e poi, di conseguenza, ad emozionare chi sta ascoltando. È un genere con cui riesco a trasmettere di più e mi piace in assoluto perché riesco a fare quello che voglio sul palco, senza muri, senza pensare a niente. Ad esempio, ieri abbiamo fatto un concerto e i pezzi in cui sentivo di comunicare con la musica erano di questo genere qui.

Percepisco che la sua risposta resta poco svelata e mi focalizzo sulle emozioni. Lo sappiamo tutti che sono il motore della vita e hanno più potere della mente. È inevitabile tornare con la memoria ad un po’ di mesi prima, quando con Gianluca, il direttore artistico del festival e suo fondatore, abbiamo parlato del progetto di aprire un blog in cui poter narrare Trasimeno Blues, oltre il tempo e lo spazio, in veste ufficiosa, come voce popolare. Sono sempre stata convinta che niente più del blues, sia dichiaratamente connesso alle emozioni, così gli ho proposto di chiamarlo “Emozioni in musica”. Gianluca si è mostrato visibilmente perplesso! Gliel’ho letto in faccia, come lo si legge in faccia a tutte le persone integre, abituate ad essere autentiche e intuisco che ha il problema di non volermi ferire, pur sapendo che per niente al mondo baratterebbe il suo sentire. Mi ha risposto con garbo che la parola “emozioni” è inflazionata, che in questa fase è più attratto dall’esperienza. In un attimo, ho percepito il senso della sua considerazione e l’ho sentito avanti, come sono avanti gli artisti e i promotori di arte e di musica. E così questo ricordo mi ispira la domanda successiva:

  • D: Emozioni! Questa parola è “molto inflazionata”, tutti ne parlano. Mi piacerebbe che tu declinassi ciò che significa per te.

Amo ascoltare i pochi secondi di silenzio dopo una domanda. Ho la sensazione che la risposta non sarà preconfezionata. Anche se me lo aspetto che il cantante degli Smooth, per la sua giovane età, come è giusto che sia, non si preoccupi troppo della complessità che sta dietro le parole, pur in totale sincerità e apertura:

  • R: Significa che riesco a farmi trasportare dal brano, non è più una questione di tecnica come cantare, appoggiare col diaframma, prendere le note giuste, e nemmeno di tecnica di interpretazione. Si tratta di provare delle sensazioni che solitamente non proveresti parlando o facendo altre azioni. È un trasporto che viene dato da una serie di elementi: una certa melodia o certe parole che vengono utilizzate in un testo. Lo sento ogni volta che canto, specialmente rispetto a pezzi blues. Proprio come se venissi trasportato in una realtà parallela, cioè, ci sono e, allo stesso tempo, sono anche da un’altra parte. È difficile spiegare che cosa significhi emozione, perché è una cosa così tanto propria che è anche difficile trovare le parole giuste. Noto che nel momento in cui riesco ad essere deciso, a mettermi in gioco con apertura, senza finzione, nelle persone che ascoltano, nei loro occhi, cambia qualcosa. Non c’è più un ascolto passivo. La gente viene, a sua volta, coinvolta nell’interpretazione del brano.
  • D: Come se ci si trovasse in un viaggio in cui entri in un modo ed esci in un altro?
  • R: Si.

Insisto:

  • D: La parola emozione potrebbe essere sostituita dalla parola esperienza? La musica è esperienza? Se prendiamo la metafora di prima: il viaggio è sicuramente abbinato all’esperienza, che è quella possibilità che abbiamo, dopo averla vissuta, di tornare diversi, cioè di percepire che è aumentata la “capienza” di quello che siamo. Se mettiamo insieme la parola emozioni con la parola esperienza, ti risuona?
  • R: Sì. Non sono la stessa cosa, tuttavia esiste un nesso. Se penso alle sensazioni provate sul palco, durante l’esecuzione di questi pezzi, ogni volta è una nuova esperienza, non mi dà la sensazione di un qualcosa di ripetitivo che mi stanca. E ne ho sempre più bisogno. È un insieme di emozioni nuove ogni volta, che possono andare a creare un bagaglio, un ricordo, tanti ricordi. Forse per questo, per molti musicisti, la musica è un po’ come una droga. Non è solo l’adrenalina prima di salire sul palcoscenico, è proprio un viaggio dall’inizio alla fine: dalla preparazione, ai problemi che si creano, che si risolvono e la comunicazione con chi ti ascolta, una delle parti più intense.

La freschezza di Malick fluidifica le sue parole e promette di onorare un destino. Chi vivrà, vedrà!

  • D: Siete un gruppo emergente e immagino che stiate vivendo la fase in cui, restando nella metafora del viaggio, siete al decollo. Avete paura di volare? E, soprattutto, hai paura dell’atterraggio?

Nel rispondere a questa domanda, Malick non ha esitazione, si prende comunque il tempo.

  • R: Non ho alcun tipo di certezza ma non ho paura, anzi sono un po’ impaziente: voglio provare questo atterraggio. Non vedo l’ora di vedere fino a che punto potremo arrivare. Spero che non ci sia un vero atterraggio, anzi, spero che sia il viaggio più lungo possibile da fare, più che paura ho aspettative, obiettivi che vorrei raggiungere. È una cosa che voglio fare così tanto che in realtà non mi preoccupo di come sia possibile realizzare una determinata ambizione, sono semplicemente concentrato a realizzarla.
  • D: La fase creativa è intima. Segue quella in cui la produzione viene messa a disposizione ed è nella comunicazione col pubblico che ci si misura. L’artista sa che, mentre si esibisce, si sta donando. Tu cosa pensi di donare? Perché il pubblico dovrebbe venire a sentirvi?

Malick coglie la provocazione, tuttavia, ci tiene a precisare che il pubblico non deve sentirsi obbligato.

  • R: Nei concerti che abbiamo fatto, non sempre avevamo a disposizione le strumentazioni più giuste, le luci e tutti quegli elementi che creano atmosfera e facilitano l’ingresso nel mood della serata; abbiamo però sempre avuto un feedback da parte del pubblico. La cosa più frustrante per un musicista sarebbe quella di non avere una risposta da parte del pubblico e non tanto i mille problemi che si possono creare. Quando l’artista non riesce ad arrivare al pubblico e non riesce a creare una comunicazione, credo che questo rappresenti una delle cose peggiori che potrebbero succedere. Noi siamo emergenti, stiamo emergendo e, al di là delle capacità e dei potenziali che ognuno di noi ha, riusciamo a coinvolgere il pubblico, riusciamo a condividere quello che noi stessi stiamo provando. Noi nel suonarlo e il pubblico nell’ascoltarlo.
  • D: Se è vero che siete voi i primi a vivere un’esperienza inedita ogni volta, deduco che il pubblico avrà l’opportunità di ricevere ciò che neanche voi ancora sapete. Per scoprirlo insieme. È così?
  • R: Assolutamente sì. Questo può succedere sia con un pubblico nuovo che con un pubblico abituato a sentire il gruppo. Nel momento in cui noi proviamo nuove esperienze ogni volta, beh, di conseguenza anche il pubblico ne fa parte.
  • D: So che hai seguito uno stage con Herns Duplan, che è stato un tuo maestro di tecnica corporea e che io amo profondamente. Nei suoi stage, in merito al processo artistico creativo, Duplan era solito parlare del Phénomène du possedant-possedé in cui, l’artista, nel momento in cui sta seguendo un’ispirazione, che può essere di creazione o di interpretazione, vive il paradosso di incarnare due dimensioni opposte come se fossero un’unica cosa: possedere quella stessa ispirazione e, al contempo, lasciarsi possedere da essa. Questa lettura è molto affascinante. Credo sia lì che si giochi la predisposizione all’alchimia, in cui tutte le forze sono investite nella creazione di un evento. Sono soprattutto queste due forze, possedant-possedé, a sorprendere l’artista e a sorprendere il pubblico. Quanto questo è allo stato di coscienza dentro di te?
  • R: Il verbo sorprendere credo sia proprio adatto e ne sono cosciente dentro di me e anche il gruppo lo è. Ce ne accorgiamo, non solo quando ci esibiamo sul palco, spesso succede anche durante le prove: ci incontriamo, siamo noi tre nella nostra sala prove, suoniamo dei pezzi nuovi o brani già noti per ripassarli e, nonostante non stiamo condividendo quest’esperienza con il pubblico, succede molto semplicemente che, alla fine del pezzo, ci viene da sorridere o da ridere, come se fosse veramente una sorpresa. Finisci il pezzo e, come un cretino sorridi, provi anche a trattenere questo sorriso, che però esplode, proprio perché c’è una sorpresa, un risveglio, sei rimasto colpito positivamente dal pezzo. Questo succede sia tra di noi che col pubblico, perché, nel momento in cui riesci a farti trasportare da quello che è tutto il carico che il pezzo può avere, senza perdere il controllo, riesci sia ad essere posseduto dal pezzo che a possederlo e a convogliare tutto quello che il pezzo ti può dare nell’esibizione. Te ne rendi conto quando è finito tutto e ti accorgi che non sei solo tu ad essere sorpreso dal pezzo, c’è il pubblico, che è proprio lì. Lo senti e noti un cambiamento in chi ascolta e possono verificarsi varie cose: dal silenzio totale che si crea in un locale in cui il brusio delle persone è la voce di sottofondo, a momenti in cui le persone sono sedute e iniziano a ballare, oppure tengono il ritmo muovendo il corpo da seduti, e quindi credo di sì, ne siamo coscienti. Penso che sia uno dei motivi principali per cui mi piace questo mestiere.

Lo penso anch’io. Dovrebbe essere una condizione da ricercare nel quotidiano, per trasformare le nostre vite in opere d’arte.

  • D: Se spostiamo il paradigma rispetto al dare, quello che si dà al pubblico è anche una richiesta di restituzione. Se mancasse si resterebbe monchi. Queste due parti devono parlarsi e, quando si parlano, una certa compiutezza si materializza in forme autonome e assolutamente proprie. Sei d’accordo su questo? E come ve la siete passata in tempi di pandemia, in cui questa possibilità era annullata o, sicuramente, non in presenza?
  • R: Sono d’accordo! Nel momento in cui non stai semplicemente suonando un pezzo ma ti stai esibendo, e tu stesso fai parte del pezzo, è come mettersi a nudo davanti al pubblico e quando tu sei nudo davanti al pubblico sei fragile. Se il pubblico non condivide con te quell’esperienza o non la prende sul serio, questo, inevitabilmente, ti ritorna indietro. Nel momento in cui mi mettessi a cantare un pezzo in cui sono dentro e una persona dal pubblico ridesse di me o se ne fregasse, sarebbe devastante, perché sei fragile, puoi prendere attacchi da chiunque, non stai con la chitarra davanti ad un canzoniere a suonare. Stai facendo parte di quella canzone; anche se non è tua, ne stai comunque facendo parte. Con la pandemia abbiamo sofferto: non abbiamo avuto molto modo di suonare o di fare grandi progetti se non impostare una linea per il post pandemia: tirar giù un repertorio, delle idee su come presentarci al pubblico. Ad un certo punto avevamo proprio bisogno di suonare. Era una necessità. A distanza abbiamo registrato dei brani, ognuno la sua parte, le abbiamo assemblate e, nel giro di un paio di settimane, si riusciva a completare un brano e questo lavoro ci sarebbe servito sia come produzione di video da pubblicare, sia come brani provati. Durante la pandemia, il processo di evoluzione del nostro rapporto col pubblico è stato interrotto, per ovvi motivi.

La musica è passata”, cantava Ivano Fossati, intendendo che non la si può fermare, e ne siamo tutti convinti. Eppure, abbiamo fatto tutti esperienza di quanto sia fondamentale respirarla la musica, dal vivo. Forse lo davamo per scontato. Immagino quanto sia stata dura, per tutti, emergenti e non. Intenzionata a trovare una lettura ottimistica, mi si crea la connessione tra desiderio e attesa e rifletto su quanto quest’ultima possa costituire una misura del desiderio stesso. L’attesa è frustrante e tende a scoraggiare il desiderio, che resiste se sentito profondamente e veramente. Così glielo chiedo cosa sia successo a loro, anche se, immagino già la risposta. In fondo, un po’ di banalità può essere rappresentativa di ciò che sono io e così la esprimo:

  • D: Questa pandemia vi ha tenuto ancora inchiodati lì, al vostro sogno. Consideri sia stata un’opportunità per testare la vostra passione?

Malick continua come se le sue parole fossero il prosieguo della domanda, sottolineando che “l’attesa aumenta i desideri. Quando ci sono, quando hanno peso”. E qui mi commuovo, perché avere sogni è un indicatore di vita.

  • R: Si, per quanto riguarda la pandemia, sentivamo la necessità di ritornare non solo a provare, ma anche su un palco, per la voglia di suonare, di esibirsi. L’attesa l’ho sperimentata ancor prima che ci fosse il lockdown, durante periodi in cui suonavo con gruppi che, in realtà, non mi davano la possibilità di raggiungere le mete cui aspiravo. Quest’attesa non è passiva, ti spinge a ricercare, fa crescere sempre di più la voglia di suonare, aumenta sempre di più le aspettative, la voglia di crescere, anche un po’ la voglia di farsi conoscere, non solo nella propria città. Desideri che la gente conosca il nome del gruppo e questo è dato proprio da un continuo attendere, attendere e, a volte, anche procrastinare che, però, poi, ha un effetto molla: l’attesa ha caricato sempre di più la molla fino a che ti senti spinto. Ci sono state così tante attese che adesso viviamo questo ritorno sul palco continuo: abbiamo diverse date e tantissime idee da mettere in pratica. L’attesa ci ha anche fatto bene; ci ha fatto capire che senza la musica non possiamo rimanere.
  • D: O fai il musicista o fai il musicista! Ed è quella la misura. Mi hai commosso quando hai parlato dell’essere fragili. Ho sentito che o te lo prendi quel rischio o non sei! Che rapporto hai con il rischio?
  • R: Beh il rapporto con il rischio non viene così, dal niente. C’è chi è più predisposto e chi meno, ma c’è sempre quel primo imbarazzo, quegli scalini da salire, c’è sempre la paura del palco e la paura di esprimersi. C’è un momento in cui ti succede che non la vivi più solo come paura, ma anche come qualcosa di bello. Lo sai che, una volta affrontata, ti dà beneficio. L’ho sperimentato, sia esibendomi davanti ad un pubblico (che all’inizio potevano essere parenti e amici, poi sono diventati locali, poi sono diventati festival) sia nelle prove, sia nello scrivere i pezzi. Quando scrivi i pezzi, metti in gioco qualcosa di tuo, stai esprimendo i tuoi pensieri, stai aprendo la tua testa, il tuo cuore, lo stai mettendo su carta. Anche se uno scrivesse un qualcosa di finto, starebbe comunque esprimendo una parte di sé, anche se non credesse realmente in quello che scrive. Nel momento in cui vai a presentare un tuo pezzo, quel pezzo è tuo, ti identifica, lo devi assumere, è una tua responsabilità. Nel momento in cui vai ad esibirti con un tuo pezzo su un palco sei fragilissimo ed è un rischio che va preso. Inizialmente avevo paura del giudizio ma quando poi ho visto il risultato, questa paura si è trasformata. Non si cancellerà mai. Una paura che ho sempre avuto, da quando ho iniziato a suonare a 14 anni fino a ieri sera e, presumo, mi accompagnerà anche in futuro. Ci sono sempre quelle farfalline nello stomaco, però con una diversa consapevolezza, quella del dopo e di cosa questo ti porta.
  • D: In psicoterapia si dice che la paura e l’eccitazione si muovano sulla stessa corda, anche se la paura può bloccare e l’eccitazione fa fremere, vibrare. Ci si prende il rischio e si vince la paura quando si ha quel fuoco dentro che arde e conta più della paura. Quel sacro fuoco che trasforma la paura in eccitazione. Che ne pensi?
  • R: Mi risuona molto. La paura è un blocco finché non l’affronti e per affrontarla devi avere dei motivi. Maggiore è la paura e maggiori devono essere i motivi che ti spingono ad oltrepassarla. Inizialmente, quando scrivevo i miei primi pezzi, non mi passava neanche per la testa di farli ascoltare a qualcuno. Sentivo imbarazzo, paura, soprattutto del giudizio. Poi ti rendi conto che questa paura va sfruttata a tuo vantaggio. Il quantitativo di paura è correlato e proporzionale a quanto ci tieni. Allo stesso tempo, dato che ci tieni tanto, riesci a farti carico di quella forza che te la fa affrontare.
  • D: Come è il rapporto tra voi del gruppo? Litigate?
  • R: Bello, c’è un po’ tutto: comprensione e incomprensione. E a volte litighiamo. Succede ogni volta che non condividiamo le stesse aspettative: io mi arrabbio e litighiamo. Penso sia l’unico motivo per cui litighiamo. Siamo molto diversi tra di noi, con una passione in comune che realmente ci tiene legati. Il fomentatore dei litigi sono io. Alessio e Federico non sono solo amici con cui abbiamo amalgamato le nostre diversità, sono le persone con cui sto condividendo un sogno, un progetto prioritario. Nel momento in cui fiuto che non ci sia la stessa voglia di fare, lo stesso desiderio, le stesse aspettative, mi arrabbio. Quando rilancio, se c’è un feedback positivo ok, se è negativo, litighiamo. Per il resto andiamo d’accordo. Finora le litigate non ci hanno mai sfasciato e questo mi fa sentire che è il gruppo giusto. Loro mi ispirano e credo di ispirarli.
  • D: Qual è il pezzo vostro che senti di più e quale quello di altri?
  • R: Il pezzo nostro che sento di più si chiama “Coscienza”. Lo sento come il nostro cavallo di battaglia. Lo suoniamo sempre, anche il 22 lo suoneremo. Nonostante sia stato io a scriverlo, è proprio il pezzo in cui ognuno di noi ha messo mano, tra testo e arrangiamenti, e nel momento in cui lo suoniamo sentiamo che quello è il nostro pezzo. Non mi viene da dire che è il mio pezzo, è il nostro pezzo. Mentre per l’altro, oggi posso dire “It’s a Man’s World” di James Brown. Ce l’ho fresco, l’abbiamo suonato anche ieri.

Domani chissà! Non gli chiedo se lo suoneranno il 22. Immagino di sì. Il tempo è passato senza che ce ne accorgessimo, ci chiamano per cena. Nonna Alessandra, nonostante i suoi problemi di salute, ha preparato degli arancini invitanti. La tavola è imbandita di ogni ben di Dio e questo attribuisce una dimensione di straordinarietà alla più ordinaria e usuale delle azioni, quella di mettersi a tavola. Prima di andare a cena, voglio fare un’ultima domanda:

  • Che cosa hai voglia di dire a Gianluca Di Maggio, direttore artistico e fondatore di questo meraviglioso festival?

Sul viso di Malick si stampa un sorriso più complesso di quanto si possa intuire, che viene svelato dalla sua risposta:

  • Ho voglia di dire grazie a Gianluca per il “No” che ci ha dato. Eravamo andati da lui, ci eravamo proposti per suonare.  Lui aveva guardato i nostri video, visto il nostro gruppo e aveva detto di no. Un “No” che non dipendeva da un problema di locale o di date. Era un “No” a noi. Non eravamo ancora all’altezza. Era stato il primo “No” ricevuto ed è stato uno stimolo a migliorare e a crescere. Abbiamo lavorato sodo e oggi quel “No” si è trasformato in un “Si” e Gianluca si è preso la responsabilità non solo di farci suonare nel suo locale ma di proporci ad altri locali e, come artisti emergenti, a Trasimeno Blues. Un’occasione importante per noi. Per tutto questo lo ringrazio.

Un sorriso reciproco sancisce la fine dell’intervista e ci precipitiamo in sala da pranzo. Mi siedo a tavola in compagnia del valore dell’umiltà, virtù rara che accomuna le persone straordinarie: l’umiltà dei componenti del gruppo Malick & The Smooth che, di fronte ad un “No”, si sono rimboccati le maniche e hanno stretto i denti, e l’umiltà di Gianluca Di Maggio, che ha saputo tenere aperta la porta dell’ascolto e del pigmalione, soprattutto la porta del cuore, senza barattare la qualità e l’onestà che, da sempre, mette in campo a garanzia del pubblico di Trasimeno Blues e di tutti gli eventi musicali che organizza. La cena scorre spensierata, in chiacchiere, resa frizzante dall’ironia di nonno Mario, dall’incontro tra Elena e Nicole all’alba di un’amicizia, dallo sguardo accogliente e amorevole di mamma Paola e dallo scambio di messaggi con Teodora, ora ballerina in Francia, che, con Malick ed Elena, ha condiviso uno stage con Herns Duplan. Una potenziale rimpatriata a Parigi sarebbe il giusto preludio di un viaggio che sa di simbolico. A tavola, il piacere del cibo si fonde con il piacere della compagnia: si chiacchiera in convivialità. E poi, piena di blues, oltre il blues, mi rimetto in macchina, in viaggio verso casa. E non è solo per la notte che intorno tutto si tinge di blu.

(M.P.)

3 Risposte a “DIARIO DI UN’INTERVISTA A MALICK NDIAYE DEI MALICK & THE SMOOTH”

  1. Complimenti per l’articolo sembra di essere seduti a tavola con voi!
    Emozionante

  2. È una delle interviste più belle che io abbia mai letto, domande interessanti ed intense che hanno il merito di interrogare anche il lettore. Un bel viaggio nella musica con gli occhi e il cuore di un giovane e straordinario artista e una Giornalista strepitosa. Grazie

  3. Intervista davvero interessante! Le parole di Malik entusiasmano e spingono alla conoscenza più approfondita della musica di questa band che spero di vedere presto a Roma dal vivo!

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