Uno scrittore e una storia si scelgono. Ne sono convinta. Come un figlio e un genitore, come due innamorati che riescono davvero a invecchiare insieme. Ancora non ho capito chi fa il primo passo, se è lo scrittore a scegliere per primo la storia da raccontare o è la storia stessa a blandire lo scrittore da cui vuole essere raccontata. Gianluca Diana, insieme al disegnatore Andro Malis, è autore del libro “Mariem Hassan: io sono saharaui”, edito da Barta, che presenterà a Trasimeno Blues il 28 luglio alle 17.30, nel Palazzo della Corgna di Castiglion del Lago. Giornalista free-lance, radiofonico, direttore del “Mojo Station Blues Festival”, e tanto altro, dà l’impressione che non sopporterebbe nessun tipo di capestro. Mariem Hassan, cantante di fama internazionale, sia per le sonorità particolari e coinvolgenti della sua musica, sia per i testi impegnati che l’hanno portata ad essere un vero e proprio simbolo del suo popolo (di cui si è fatta portavoce), è la protagonista del libro e, nel corso della sua vita, è riuscita a sottrarsi a ogni tentativo di sottomissione, affrontando spesso situazioni romanzesche, oltre ad aver attraversato territori esperienziali e musicali unici. Ho la sensazione che l’irrinunciabile valore della libertà sia stato il grande richiamo tra scrittore e storia, oltre alla musica, naturalmente. Così, con la prima domanda, decido di partire dalle origini, sulle tracce di quel primo passo.
D: Come ti è nata l’ispirazione per scrivere questo libro?
R: Sono arrivato a Mariam Hassan un po’ per casualità e un po’ per destino. Ero in Alabama, in un contesto pieno di blues, per intervistare Willie King, bluesman e attivista sociale. Dalla sua bocca, per la prima volta, sento pronunciare il nome di Mariem Hassan, a cui non ho dato molto peso, anche perché il centro della conversazione, in quel momento, era un’orchestra che, dall’altra parte dell’oceano, si batteva per i diritti della sua gente. Prima di rientrare in Italia, sono passato da Barcellona e, come ogni radiofonico che si rispetti, andando a spiluccare nel negozio di musica in cui incappo, incontro un disco di Mariem Hassan. Il primo che compro e che porto con me. Non capivo che cosa dicesse, nel senso che non conosco la lingua di hassanya (una derivazione dell’arabo che parlano i saharaui), ma rimango colpito dalla potenza di una canzone in particolare, con un sacco di groove, un sacco di ritmo: “Magat milkitna dulaa”. Inizia a suonare in radio e in una serie di dj set e, grazie a questa serie di concatenazioni, a metà tra il fato, l’immaginifico, il casuale e il destino, in modo non diretto ma, probabilmente, un po’ sotto la sabbia, sono entrato in contatto con Mariem Hassan e da lì è partito tutto.
D: Come ti sei documentato?
R: Per documentarmi non ho fatto altro che prendere quel disco, scardinarlo in ogni suo angolo, affrontarne le difficoltà dal punto di vista linguistico, rivolgermi a chi potesse sciogliermi qualche dubbio; in particolar modo mi sono rivolto alla rappresentanza in Italia della R.A.S.D. [Repubblica Araba Democratica Saharawi]. La persona di riferimento, Fatima Mafhud, ad oggi rappresentante del popolo saharawi nel nostro paese, mi ha fornito i giusti consigli per avere tutte le informazioni e arrivare alla sorgente: Mariem Hassan. Fatima è nel libro, disegnata in una tavola all’inizio del sesto capitolo, dove ci sono anche io seduto assieme a Mariem. Le informazioni principali sono giunte da un’unica direzione, Mariem che ho incontrato ripetutamente. È stata anche protagonista, a Roma, del nostro “Mojo Station Blues Festival” che, nell’approccio e nella curiosità, è vicino a quella che è la storia di Trasimeno Blues, per noi un fratello maggiore: tutto quello che ha messo in piedi Gianluca Di Maggio è encomiabile. Proviamo stima per il lavoro che fa, insieme a tutti gli altri e a tutte le altre dell’organizzazione e dello staff. Davvero un gran bel lavoro. Trasimeno Blues, che noi frequentavamo fin dai primissimi anni, è stata una delle molle che ci ha spinto ad organizzare il Festival Blues a Roma. Per tornare alla tua domanda, la fonte della mia documentazione è stata Mariem stessa e, ti dirò di più, il progetto del libro è stato possibile perché lei ha preso per mano me e Andro Malis (che ha curato i disegni), e ci ha portato nella sua narrazione personale, artistica, collettiva e di attivismo sociale. Grazie a lei abbiamo sciolto il problema fondamentale, ovvero narrare una storia da noi lontana geograficamente e socialmente. L’unico modo per cercare di fare meno errori possibili, è stato quello di avere l’assenso di Mariem; senza di lei non avremmo fatto nulla.
Il libro è arrivato alla terza ristampa, riscuotendo un successo incredibile, nonostante la promozione non abbia previsto passaggi televisivi o pubblicitari particolarmente consistenti. Nelle sue pagine, nonostante sullo sfondo ci sia il dolore di un popolo, si intrecciano vicende umane, affettive, culturali, geografiche, politiche, artistiche, talmente avviluppate e avvincenti, da trasmettere tutta la forza di una personalità e di una cultura capace di resistere ad ogni destino avverso. Nel libro, il termine italiano saharawi viene sostituito da quello spagnolo saharaui. Questo dettaglio mi fa immaginare che gli autori abbiano voluto mantenere il termine originario in spagnolo per consegnare intatto il rapporto con il contesto in cui le vicende narrate si sviluppano.
D: Puoi spiegarci il senso del termine saharaui e perché lo usi in spagnolo e non in italiano?
R: Saharaui è in castigliano perché Mariem viveva in Spagna e quindi, a prescindere dalla grammatica, ci è sembrato corretto mantenere quel legame con la terra iberica. Nel libro cerchiamo di dare un senso alla corposa storia del popolo saharaui, calato nei primi movimenti indipendentisti che si muovono dagli anni 50 e che in poco tempo, sono andati verso una direzione precisa: raggiungere l’indipendenza per avere un proprio Stato. Parliamo di un territorio che non è mai stato completamente decolonizzato e che, dopo gli accordi di Madrid del 1975, siglati dal dittatore Franco con Marocco e Mauritania, ha subito una guerra di invasione da parte di questi due stati. Vi è stato un esodo con il quale molti saharaui sono giunti nell’attuale territorio dove sono insediati i campi profughi su suolo algerino, nei pressi della città di Tindouf. Stiamo parlando di una delle zone più inospitali al mondo dal punto di vista climatico: si va dai -14 ai +55, dove sovente ci sono tempeste di sabbia. Non c’è nulla, è un deserto di sabbia.
Il funerale di Mariem è avvenuto nel campo profughi di Tindouf, dove era tornata, ormai consumata dal tumore, per consegnare il suo corpo a quella terra impervia che custodisce quel sogno, cantato nelle piazze e nei teatri di tutto il mondo. Gianluca Diana, non ha potuto esserci e, quando ne parla, la sua voce, di solito energica e sicura, rallenta, si ritira in toni sommessi, si sospende, per contenere la commozione e il privilegio di un’amicizia prima di tutto. Il titolo del libro è una dichiarazione di identità connessa a una lotta di affermazione. Mariem Hassan è una donna, un’artista, un’esiliata, una rivoluzionaria (si esibisce con altri cantanti impegnati nella lotta in favore della RASD-Repubblica Araba Sahrawi Democratica), con una storia densa, calata in un contesto geo-politico ed economico estremamente intricato in cui si innestano gamme emotive e affettive che vanno dall’amore, alla dignità, alla rivendicazione. Tante dimensioni che si intrecciano in modo talmente interconnesso e articolato che è difficile sintetizzarle.
D: Mi ha stupito che sei riuscito a raccontare Mariem Hassan in un centinaio di pagine, mentre mi aspettavo qualcosa di molto voluminoso. Come hai fatto a orientarti in questi contenuti così consistenti, in questa mole di elementi, informazioni, dettagli che connotano il vissuto della protagonista del libro?
R: Non è stata un’operazione facile. Da un certo momento in poi, a malincuore, bisogna selezionare. Sentire raccontare da Mariem è stato di grande aiuto con le sue narrazioni, con la sua allegria e con il suo pragmatismo. Ascoltarla con attenzione mi è stato di enorme aiuto per comprendere cosa inserire e cosa no. Inoltre, la narrazione sviluppa poi in modo autonomo e non può essere mai completamente pianificata. E per fortuna, succede qualcosa di completamente diverso e i programmi iniziali, per fortuna, cambiano.
Le voci del deserto sono state tutte potenti. Giovanni Battista era la voce che grida nel deserto; Mariem Hassan è considerata la voce del deserto. Dal punto di vista soprattutto simbolico, il deserto disperde le sue voci, per l’immensa vastità degli spazi: difficilmente i potenziali interlocutori possono essere raggiunti, difficilmente possono essere ascoltate. Eppure, in chi le ode, queste voci lasciano il segno e, per strani circuiti, arrivano ai cuori di chi le vuole ascoltare, ignorate da chi non ha sufficiente fertilità interiore e che, comunque, vuole metterle a tacere, per non entrare in crisi. È la musica a compiere il miracolo di scuoterci se non siamo pronti, di metterci in contatto. La musica di Mariem è espressione, diffusione e visibilità di rivendicazioni relative soprattutto ai diritti umani e ai diritti dei popoli e invita ad accorgerci, agganciandoci con il ritmo e i suoni, per arrivare a prendere coscienza.
D: Come pensi che Mariem abbia ricevuto forza dalla musica?
R: La musica di Mariem Hassan è la sua stessa vita da cui ha tratto la forza a cui ti riferisci. È uno stile chiamato haul, forgiato di sana pianta da lei assieme a donne e uomini con cui suonavano nell’Orchestra Internazionale chiamata El Uali (dal nome del primo presidente della R.A.S.D.). Una musica di lotta e d’amore, con una spinta rivoluzionaria intrinseca.
D: Che cosa vuol dire “blues del deserto”?
R: Desert blues è una definizione ampia con la quale si includono vari stili musicali che riguardano parte delle aree geografiche maghrebina, sahariana e sub-sahariana, valicando i confini dei singoli stati. E’ un’area particolarmente vasta in cui ci sono stili diversi in base agli interpreti che cambiano da una regione all’altra. Il Desert Blues è stato capace di influenzare, e continua a farlo, la contemporaneità di pop, rock e dance.
D: La musica che affonda le sue radici nel dolore spesso sorprende: se la paragoniamo a un albero, ha radici solide e una chioma al vento, possente, briosa, leggera, gioiosa. Cosa pensi sia il senso di questa chioma che sembra così distante dal dolore che l’ha nutrita? È il miraggio di una libertà conquistata? O pensi sia la materializzazione di una identità che, anche se non è manifesta e non è riconosciuta, è comunque radicalmente presente, a prescindere da qualunque altro riconoscimento?
R: Entrambe, a cui si aggiunge un terzo aspetto: la assoluta non volontarietà di progettare un risultato a tavolino, pianificato. I saharaui non immaginavano di dover scappare da casa a seguito dei bombardamenti di cui rimasero vittime. Né tantomeno di dover fuggire per poi ricostruirsi una nuova vita in un campo profughi. La tua domanda è già una ottima risposta alla quale si aggiunge quanto ti ho appena detto. Significa che un suono è diventato iconografico per un popolo intero ancor più velocemente a causa di quanto accadde con l’inizio della guerra. Tutto questo mentre in simultanea i saharaui stavano prendendo coscienza della propria identità.
Prima di salutare Gianluca Diana e, attraverso lui, Mariem Hassan, sento la curiosità di come sia arrivato ad affermarsi come free-lance, nonostante la giovane età: Rai 3, radio Svizzera e per la carta stampata Alias e Il Manifesto: si muove con disinvoltura in tanti contesti professionali.
D: Come si fa a diventare te?
R: Sono un semplice narratore, che ha avuto la fortuna di poter fare ciò che desiderava. Per far ciò, occorre avere curiosità, muoversi, essere liberi e indipendenti. Non è facile ma vale la pena tentare.
Alla fine di questa intervista, mi ascolto alcuni brani della produzione musicale di Mariem Hassan e mi abbandono alle vibrazioni che, come onde marine, vagano “dalla pelle al cuore” e viceversa, lasciando fluire le parole di Gianluca Diana che, gradualmente, la musica ingloba e mi commuovo per ogni nota e ogni ritmo di gioia, perché credo che quando il dolore è profondo e apre ai confini della vita e della gioia, acquisisce quella dignità che non è compatibile con la lamentela, costituendo una fonte di forza. In queste sensazioni ritrovo quell’atmosfera blues che sa essere una sorta di esperanto emotivo in cui affondare il cuore.
(M.P.)