Meravigliato, sbalordito, sconcertato. Sì, eppure, nessuno di questi sembra abbastanza a descrivere, a esprimere cosa prova un giovane ragazzo di vent’anni nel giorno del suo compleanno a trovarsi catapultato in questo mondo, a trovarsi davanti degli artisti capaci di trasferire nella loro musica delle emozioni cosi impeccabilmente. Giusto la sera prima, assieme agli altri ragazzi ingaggiati da Gianluca Di Maggio e dallo staff del Trasimeno Blues, mi trovo ad accompagnare gli artisti della Sweet Emma Band nelle loro camere: già incapace di capire a pieno le sensazioni per la forte emozione, di abituarmi a un luogo tutto nuovo e da scoprire, mi trovo davanti a dei colossi nel loro genere, senza nemmeno conoscere la portata di ciò che stavo osservando. Conosco così delle persone, non artisti, ma umani, capaci di rimanere con i piedi per terra seppur superiori per capacità, conosco delle persone che non credono di essere migliori, che mi parlano, sia dei problemi che hanno avuto durante il viaggio, della strada fatta, di quanto fossero stanchi, quasi con timidezza, come quando si conosce una persona del tutto nuova e con essa si vuole avere una conversazione, un’interazione umana, un carattere umano che solitamente gli artisti non si trovano ad avere. Parliamo, li conosco, per quanto si può imparare a conoscere una persona nei dieci minuti che si hanno tra una mansione e l’altra e, nonostante il poco tempo a disposizione, imparo a comprenderli. In vent’anni credo di aver capito che la bellezza di una persona sta anche e soprattutto nel suo modo di trattare una persona senza nemmeno conoscerla, senza pregiudizi; e così sono stato trattato; ad esempio Jan Korinek, organista della band, non ha avuto esitazioni nell’offrirmi una delle sue birre, in camerino, mentre sistemavo le ultime cose dopo il concerto, anche avendone poche rimaste, e felice di condividere, persino con un ragazzo quasi sconosciuto, venendo a sapere del mio compleanno durante la nostra conversazione, ha avuto la premura di invitarmi a bere con loro dopo l’esibizione. Tuttavia, non solo io ho avuto la possibilità di conoscere i componenti della band, né tantomeno di comprendere la loro affettuosità e umanità, perché quelli che ho fatto sono solamente esempi di quanto la “Sweet Emma Band”, nella propria musica, sia capace di integrare l’interiorità, le emozioni, le caratteristiche di ognuno dei componenti, facendosi, in un modo o nell’altro, percepire per ciò che sono, persone che creano arte, che vogliono condividere loro stessi tramite la loro musica. Sarebbe bastato ascoltare una sola canzone del loro repertorio per rimanere senza parole: ogni membro della band svolgeva il suo lavoro senza sbagliare una virgola, individualmente perfetti, arrivando tramite cooperazione, collaborazione e soprattutto vibrazioni e “feeling” tra i musicisti, a trascinarci in uno spettacolo a cui non potevi criticare nulla. Su quel palco era come vedere un grande puzzle, con tutti i pezzi che si intrecciano perfettamente tra loro, un macchina dal motore ben oliato che sfreccia su un palcoscenico già calpestato in questi tre giorni da artisti a cui è complicato tenere testa. Gli “Sweet Emma Band” l’hanno fatto alla perfezione: partendo dai fiati di una band che assomiglia più ad un orchestra, passando per le percussioni, e chitarra e organo in un gioco d’alternanza solista, fino ad arrivare alla voce maestosa di Chanda Rule. Ma cerchiamo di trovare un ordine in uno spettacolo così meravigliosamente confusionario; e, attenzione, non nel senso di caotico, ma nella sua capacità di lasciare lo spettatore in una magica veemenza: partendo proprio dai bassi del maestoso trombone di Paul Zauner, che entrano dentro l’ascoltatore come un magico flusso ritmico, facendo vivere emozioni diverse ad ogni nota. Al suo fianco troviamo la potente tromba di Hermon Mehari, che ci fa viaggiare con degli sprazzi di poliedrica possenza che si mescolano, quasi timidamente, nella totalità armonica. Arriviamo così agli strumenti che ci hanno deliziato con degli assoli a dir poco fenomenali, da fantastici solisti e solidi accompagnatori: parliamo del sassofono di Osian Roberts, unico nel suo genere, con un suono dolce e sottile, pieno ed emozionante, carico e coinvolgente. Non da meno l’Hammond B3 di Jan Korinek, suggestivo e avvolgente, che tiene il pubblico incollato ed eleva il suono ad un eterno momento, con le sue lunghe note, alternate con destrezza alle brevi. Ultimo, ma non per importanza, tra gli strumenti solisti, la chitarra -scritta da ‘mickeylee’ e suonata eccezionalmente da Luca Giordano- fondamentale nell’accompagnamento e con assoli incommensurabilmente leggiadri, a tratti in uno scambio solistico con l’organo Hammond, simile ad un acceso dialogo tra strepitosi interpreti. Alle spalle degli altri strumenti, troviamo un batterista, Oliver Lipensky, talmente versatile da riuscire ad essere incriticabile anche in alcuni passaggi nei quali si trovava “costretto” a seguire gli altri membri, in un vincolante piacere, che lo innalzava da semplice percussionista a duttile musicista, capace di comprendere i suoi compagni solo tramite uno sguardo. Durante la serata ci ha intrattenuto anche con vari spezzoni solisti, come nell’intro di “Carry it Home to Rosie” dove Lipensky utilizza tecniche e percussioni caratteristiche dell’Africa tribale. Davanti alla batteria, tra organo, fiati e chitarra c’era lei, Chanda Rule, il magnifico canto di una sirena tra le onde già armoniose del mare tempestoso. Un’energia elettrizzante quanto avvolgente, cullando chiunque ascolti con melodie e suoni che mutano per ogni umana emozione. Un timbro che richiama le più grandi vocalist della black music, come Ella Fitzgerald e Aretha Franklin, ma che arriva a sonorità talmente acute e ben mantenute da ricordare Clare Torry in ‘The Great Gig in the Sky’ dei Pink Floyd. Insomma, una voce che sarebbe calzata a pennello in un locale jazz newyorkese degli anni ’30, così come il resto della band che ci trasporta dallo scenario già suggestivo del lago Trasimeno, fino al Cotton Club della romantica antica New York. Basta chiudere gli occhi per essere cullato, trasportato, trascinato dall’incantevole ed ammaliante voce, dall’energia coinvolgente della band con così varie influenze, dal soul, al jazz, al più classico blues.
(Raffaele Maria De Cristofaro)