SERVITORE A TEMPO PIENO: INTERVISTA A LEBRON JOHNSON, CANTORE DI DIO.

SERVITORE A TEMPO PIENO: INTERVISTA A LEBRON JOHNSON, CANTORE DI DIO.

Ci sediamo in un angolo nei pressi del palco per ritagliarci uno spazio dedicato all’intervista. L’aria intorno è carica di vibrazioni e fatico un po’ a connettermi. Un respiro profondo per centrarmi, focalizzo lo sguardo su LeBron Johnson (raggiante per il successo del concerto), faccio spazio nel cuore e nella mente e riesco ad astrarmi dal resto del mondo per essere, hic et nunc, con la star della serata, certa di avere il privilegio di poter raccontare una storia intensa come il suo modo di cantare. Nel tragitto per arrivare al concerto, senza volerlo, sono passata dal cimitero di Badiola, un tratto di strada in cui, 25 anni fa, ho subito un rovinoso incidente di macchina che mi ha tenuta fuori uso per più di un anno, invertendo la rotta del mio destino. Ho cappottato e ho fatto trenta metri di volo. Una volta atterrata, come era prevedibile, mi sono rotta tutta e non sono morta. Alcuni giorni in prognosi riservata di vita e il progressivo lento recupero, dallo shock iniziale, alle ottime cure, alla grande solidarietà, alla tenacia, al sostegno, ai sorrisi, alle lacrime, allo spirito di adattamento, alla voglia di trovare una strada di felicità, nonostante tutto. Le ottime cure che ho ricevuto, il sostegno affettuoso di familiari e amici e il tempo, mi hanno rimesso in piedi, pronta a ripartire, per navigare su altre rotte, per ricostruirmi, “ricominciando da tre”, preservando ciò che del mio passato fosse compatibile con il mio futuro. Il tutto, sotto la sapiente regia divina. Svalicando il dosso, ho riconosciuto il luogo e ho rivissuto quel momento. Ho rallentato con la macchina e, come alla moviola, ho visto scorrere le immagini, ricordando i dettagli, le sensazioni, tutto quanto. Era un giorno felice e boom! Succede. Nella vita accadono delle cose meravigliose e ogni tanto è come se ci fossero delle interferenze, degli ostacoli che in qualche modo ci costringono ad affrontare una crisi: a volte ci tolgono tutto, a volte qualcosa, insomma ci danno da fare e, quasi sempre, si riemerge rinnovati, più forti di prima, con negli occhi l’aria eroica e benedetta di chi è sopravvissuto. Soprattutto si impara a convivere con le parti di noi che si sono compromesse e a compensarle. Il concerto si è concluso da un po’ e incontro LeBron Johnson sotto l’incanto di un cielo stellato. L’eco della musica ancora vibra dentro, nei muscoli e sotto la pelle. Mi sembra il contesto giusto per partire con una domanda che emerge dal mio vissuto personale.

  • D: Che rapporto hai con gli incidenti di percorso, con l’imprevisto in generale?
  • R: Sicuramente un imprevisto mi porta ansia e, al contempo, mi fa diventare molto umile. So che un imprevisto potrebbe togliermi l’opportunità che ho adesso. Quando inciampo in un imprevisto, dal profondo del cuore mi dico che c’è sempre una via che mi porterà dove non mi sarei mai aspettato. Quindi c’è ansia, aspettativa, ma c’è anche umiltà e fiducia che ogni cosa che succede ha un suo senso e ci riserva qualcosa di buono che magari non capiamo subito.
  • D: Qual è il legame tra l’imprevisto e la tua musica?
  • R: Questa sera, verso la fine del concerto, con il secondo bis, abbiamo improvvisato e ho vissuto la bellezza dell’imprevisto. Naturalmente c’era l’aspettativa che suonassimo alla grande un brano che non avevamo mai provato e, per questo, avevo paura di non avere abbastanza controllo. Eppure, delle volte, quando abbiamo bisogno di controllo lo perdiamo e quando siamo disposti a perderlo, alla fine abbiamo il controllo e comprendiamo l’importanza di lasciar andare. Quando non ce lo aspettiamo e c’è uno scambio di energia positiva, le cose vanno bene. Con gli imprevisti la musica è bella.

Rifletto sulla parola controllo e le sue implicazioni sociali. LeBron ne parla come condizione di agio: conosco il brano, l’ho provato, ne ho il controllo. Tuttavia, spesso questo termine ha a che fare con il desiderio che la realtà corrisponda alla nostra volontà oltrepassando la fatica del confronto e della negoziazione. Ciò spinge a bramare il potere per prevaricare. Nell’essere umano c’è l’idea di conquistare la propria sicurezza a discapito degli altri, attraverso il controllo e la prevaricazione. In realtà, tale atteggiamento inaridisce le relazioni e i contesti, toglie magia e toglie la possibilità di incontrare davvero gli altri. Nelle parole di LeBron percepisco una lezione sociale: La musica, nella sua natura universale di aggregazione, ha una dimensione sociale oltre che artistica e sono curiosa di conoscere il pensiero di Johnson a riguardo. 

  • D: Dirigi un coro gospel in cui per definizione è presente una dimensione spirituale molto forte che, per me, è l’anima della dimensione sociale. Che peso ha il valore sociale della musica nel tuo vissuto artistico?  
  • R: Premetto che mi sento a mio agio con la parte spirituale e questo mi facilita nel capire la relazione che le persone (intese soprattutto come parte di un gruppo sociale) hanno con la musica. Il suo linguaggio universale mette insieme, unisce. Per esempio, io canto in inglese e tante persone che non sanno l’inglese rispondono al brano che facciamo. Questo è un miracolo. Quando ci penso mi commuovo. Non riesco a cantare in italiano e la comunità non ha bisogno di comprendere per rispondere e partecipare. Non sanno quello che sto dicendo, e questo mi invoglia a cantare anche con il mio corpo per arrivare a loro. Quindi, si, la dimensione sociale è molto presente nella musica che mette insieme le persone. Ora ti racconto una storia: c’era una mamma arrabbiata con suo figlio. All’apice del conflitto, l’altro figlio prende la chitarra e inizia a cantare. La mamma si mette a ridere. Per me questo incarna il potere della musica, ne facciamo esperienza ogni giorno. Sì, musica e vita sociale hanno un collegamento fortissimo.

Mi torna in mente una bellissima favola africana in cui la musica riesce a mettere insieme le persone per collaborare e risolvere i problemi (chi fosse interessato a leggerla la troverà in questo blog con il titolo “Favola Africana” a questo link: https://trasimenobluesexperience.altervista.org/favola-africana-marocco/). Ieri sera ero ospite da una coppia di amici carissimi e ho chiesto a Paola cosa avrebbe voluto sapere da LeBron Johnson, promettendole che gli avrei posto la sua domanda, come rappresentante dei lettori. Avrebbe voluto sapere se il desiderio di cantare ce l’aveva già oppure è maturato in seguito. In effetti, quando LeBron Johnson ha esordito con il primo pezzo ha raggiunto le viscere del cuore, le ha smosse come fa chi è navigato ed effettivamente nasce la curiosità di conoscere questo dettaglio. Immagino LeBron nel suo contesto religioso e percepisco la differenza tra cantare col coro in un rito religioso o salire su un palco (il palco di Trasimeno Blues), in cui mettersi in discussione, senza protezione, senza paracadute, giovanissimo, agli esordi. Mi piace pensare che nel caso di LeBron Johnson, Dio in persona gli abbia voluto dare in dono una voce strepitosa e un talento interpretativo fuori dal comune per accendere aggregazione e amore e che, ad un certo punto, LeBron abbia scoperto ciò che ha sempre saputo e abbia trovato il coraggio di osare.

  • D: Da come hai raccontato durante il concerto (e lo aveva raccontato anche Andy Pitt nella sua intervista), sei stato scovato in un coro gospel in una comunità religiosa. Quando ti è giunta voce che qualcuno stesse cercando un cantante con le tue caratteristiche, è come se tu fossi stato già pronto, perché hai mandato subito un WhatsApp con un vocale/demo. Questo lascia pensare che il desiderio di fare del cantare la tua professione ce lo avevi. E quand’è che ne hai preso coscienza? Quando hai deciso che era proprio quella la strada che volevi percorrere?
  • R: Alla fine del concerto di oggi ho fatto una canzone, cosi all’improvviso, che parlava della mia mamma. Quand’ero in Nigeria e facevo i compiti per scuola, con la candela, col fumo che entrava negli occhi, mamma mi diceva di andare a dormire. Io le rispondevo che volevo studiare per passare l’esame e lei insisteva: “Vai a dormire!”. Ma quando suonavo la chitarra, non mi ha mai detto che la disturbavo o che avrei dovuto riposarmi. Mi diceva sempre, anche nella sofferenza: “Johnson non avrai successo con la scuola, avrai successo con la musica, ti ricorderai di queste parole.” Sentire queste sue parole mi rendeva felice. Quando sono arrivato in Italia, sognavo durante il giorno, ad occhi aperti, non sognavo di notte. Durante il giorno mi immaginavo su un palco con una band con persone a cui voglio bene, interpretando canzoni che scrivo io. In Nigeria ho vissuto con un amico che mi ha insegnato a scrivere brani, a suonare la chitarra. Ero pronto, da sempre: sapevo che sarebbe arrivato questo momento. Ogni volta che parlavo con la mamma, mi ripeteva: “Non avrai successo con la scuola, avrai successo con la musica”. Ho pensato che se la mia mamma mi diceva sempre la stessa frase e non cambiava idea su questa cosa, voleva dire che ci dovevo provare. Sì, ero pronto. Eppure, quando è arrivata quest’opportunità, ero nella mia zona di comfort, quindi avevo tanta paura. C’è una parte della storia che non abbiamo ancora raccontato: all’inizio ho mollato! Dopo una prima prova con Andy, ho mollato: gli ho detto che non credevo di farcela e che non meritavo questa opportunità, ma Andy non si è arreso. Mi è stato vicino e mi ha sempre scritto: “Stai bene Johnson?” Ad un certo punto mi sono detto: “Voglio provarci. Ce la faccio” e, alla fine, siamo qua.

Goethe diceva che se si guarda l’allievo per quello che è, tale rimarrà, se lo si guarda per le sue potenzialità, le raggiungerà. Andy Pitt ha creduto in LeBron Johnson e, alla fine, LeBron Johnson ha risposto alla chiamata. Sono piena di gratitudine perché questo racconto merita rispetto per gli amici e soprattutto per le donne e per le madri, date troppo per scontate da tutti, nel loro amore, nella loro sapienza. Una madre guarda con occhio teneramente sapiente i propri figli e il mondo. Sto generalizzando, anche se credo di non discostarmi troppo da ciò che è. L’Africa, una mamma, un adolescente e un sogno annunciato. Mi colpisce che LeBron Johnson abbia accolto la sentenza della sua mamma, nonostante a quell’età si vada spesso in reattanza, rifiutando di default ogni indicazione genitoriale e così mi incuriosisco.  

  • D: Che rapporto hai con la tua mamma?
  • R: Dio che domanda! Non dimenticherò mai quest’intervista. È l’intervista più bella che avrei potuto avere.

Intanto i fan hanno scoperto il nostro angolino e rivendicano il loro mito. Decido di lasciar loro Johnson per qualche minuto, defilandomi nel perimetro dello spazio fisico in cui ci troviamo per godermi indisturbata il loro scambio denso e gioioso. Dopo qualche parola scambiata con occhi pieni di vita, si congedano e riprendiamo la nostra intervista.

  • D: Eravamo alla tua mamma e al rapporto con lei.
  • R: Devo dirlo: quest’intervista mi porterà a fare una cosa molto importante. Io fino ad ora ho avuto una relazione molto turbolenta con la mia mamma, per i tanti problemi che ho avuto nella mia infanzia e nella mia adolescenza, però dopo il viaggio che mi hai fatto fare con le tue domande, sto capendo che la mia mamma mi ha davvero aiutato moltissimo: anche se ero in conflitto con lei, ho sempre seguito quello che mi ha detto nei riguardi della musica e stasera la chiamerò e le diro che le voglio bene e la ringrazio.
  • D: Wow Johnson, le puoi dire da parte mia, della blogger di Trasimeno Blues che, anche se non la conosco se non attraverso il tuo racconto, mi colpisce il suo intuito straordinario e la sua capacità di decodificare i segni. Magari un giorno mi porti in Nigeria a conoscerla.
  • R: Sicuramente. Dopo quello che hai fatto per me con questa intervista, te lo devo.

Ridiamo come due vecchi amici, oltre i reciproci ruoli, oltre i salti generazionali, oltre ogni differenza. Io porto a casa un viaggio in Nigeria e Johnson porta la Nigeria a casa, riappacificato con i suoi fantasmi, coerente con la sua essenza. Nel concerto di stasera è stato emozionante non solo per la qualità vocale e musicale, anche per quel filo rosso con cui ha legato la sua performance con l’amore. A noi, pubblico, è arrivato forte e chiaro questo vento d’amore e anche la band era in quel mood, declinato nelle specifiche peculiarità di ognuno di loro, tutti potenti: c’era apertura, creatività, generosità, nonostante il pubblico fosse più distante dal palco di quanto lo sarebbe stato senza l’acquazzone. Questa sera, sotto questo cielo con tutte queste stelle che si vedono, LeBron vive, almeno nel proposito, la compiutezza dell’amore: ciò che sentiamo nel cuore non basta, c’è bisogno di segni, di materializzazione, di azioni, di percezione sensoriale dell’amore. Certo, ciò che proviamo non è mai perso, resta scritto nella memoria divina, tuttavia, se non si completa in azione visibile e percettibile, è un po’ uno spreco.  Sarò curiosa di sapere come sia andata con la sua mamma. Glielo chiederò il 23 luglio quando suoneranno a Castiglion del Lago, in piazza Mazzini alle 18.30 (da non perdere).

  • D: Ad inizio concerto, hai cominciato a cantare e mi hai veramente incantato. Sul mio taccuino ho appuntato che la tua voce sembra sia sorta dalle viscere della terra, profonda e calda. Dopo poco, nello stesso brano, sei andato su toni alti, anche in falsetto e sei arrivato direttamente al cuore di Dio. Mi connetto con una domanda che mi ha sempre suggerito la mia amica Paola: quando canti prevale la comunicazione con il cielo (che simbolicamente è il divino) o la comunicazione con il pubblico (che simbolicamente è l’umanità)?
  • R: Sembra che tu mi abbia letto nella mente perché quando cantavo sentivo di voler farlo in modo che Dio mi senta, che possa arrivare al Suo cuore. In questo periodo sto scrivendo un libro che è intitolato “Servitore a tempo pieno”, perché credo che ogni cosa che facciamo su questa terra debba avere un’essenza di servizio verso gli altri. Dio ci ha dato tutti i doni che abbiamo e con questi doni possiamo servire gli altri; in inglese si dice purpose. Sul palco ho sempre questo in mente, di servire il pubblico con quello che Dio mi ha dato. Prima di cantare, prego, chiedo forza, perché la bella voce non basta. Quindi, quando mi ringraziano sento che non è merito mio. Per rispondere alla tua domanda, credo di comunicare con il Cielo e con la Terra, non ci sarebbe l’una senza l’altro.
  • D: I doni possono rimanere in cantina, o in soffitta; tu, invece, come tante altre persone, hai accettato l’invito e ti stai mettendo in gioco, con generosità. In sostanza, senti che non devi essere avaro.
  • R: Mi colpisce quello che dci. Io non faccio fatica ad essere vulnerabile. E quindi sul palco, quando io dico alla gente “Vi voglio bene”, non lo dico perché è una cosa da dire: in quel momento sento così tanto amore nel mio cuore e vedo la reazione del pubblico quando canto che non posso che volergli bene; in quel momento, quando dico grazie, quando li abbraccio, quando gli do la mano, lo faccio con tutto il mio cuore perché è importante essere vulnerabile, in questo mondo della musica ed è cosi che riesco ad arrivare alla gente.

Un artista, un cantante, avrebbe senso anche su un’isola deserta perché l’espressione ha un valore di per sé, tuttavia senza un pubblico manca un pezzo grosso che è la comunicazione e la condivisione.

  • D: Che spazio ha in te il bisogno di condividere? Soprattutto musicalmente e artisticamente.
  • R: Credo (anche perché me lo dicono tante persone) di avere tanto da offrire. Parlo spesso dell’amore perché con tutta la sofferenza che ho avuto nella vita, la mia (non più di altri), ho sempre percepito l’importanza dell’amore. Quando canto vedo che comunicare con la gente è importante e che quando comunico con il pubblico do alle persone che mi ascoltano quello che ho e loro mi danno quello che hanno. E questo, lo dico ancora, mi fa diventare più umile perché vuol dire che io non ho tutto, gli altri hanno qualcosa che non ho e io ho qualcosa che loro non hanno e quindi se io gli do quello che ho gli altri mi danno quello che hanno; si crea qualcosa di bellissimo. È uno scambio. C’è questa sensazione di essere parte dell’umanità: siamo un po’ isole e un po’ parte ed è come se dovessimo fare noi uno sforzo per creare ponti. Quando cantavo canzoni d’amore e vedevo coppie che si baciavano dicevo: “Che bella questa cosa, in questo momento sto cantando e vi ho dato quello che ho, la voce che Dio mi ha dato, e vi ho portato in un altro mondo. Mi date l’autorizzazione di dire che mentre canto sto arrivando al vostro cuore.” Che bello!
  • D: Quando hai cantato Marvin Gaye, hai rivelato che hai sempre paura ad interpretare un suo pezzo perché hai grande rispetto per questo colosso del soul e del R&B. Mi riporti al rapporto col pubblico che, da una parte, è di reciproco nutrimento, dall’altra, non perdona (LeBron annuisce e ride, perché ha già capito dove sto andando a parare), quindi l’artista, con timore ed eccitazione, è in attesa della sentenza del pubblico che può prevedere fino ad un certo punto, escludendo i casi in cui noi pubblico non siamo pronti ad alcune avanguardie. Mi riferisco ai casi in cui alcune creazioni artistiche non sono state apprezzate o sono scivolate nel vuoto, perché non sono state comprese per poi essere considerate dei capolavori dopo 10 anni, per esempio.  Hai la consapevolezza che il vero sovrano è il pubblico? Che misura hanno, la paura, l’eccitazione, il reciproco nutrimento nel tuo rapporto con il pubblico?
  • R: Le domande che poni con leggerezza, mi toccano nel profondo. Nel libro che sto scrivendo, “Un servitore a tempo pieno”, racconto proprio questo: bisogna dare il meglio di sé, essere bravi in quello che facciamo senza aspettarci di essere perfetti. La ricerca della perfezione paralizza; molte persone non si esprimono, non si mettono in gioco perché non sono perfette e non arriveranno mai ad essere perfette. In sostanza, la Vita ci chiede una cosa molto semplice: fare quello che sappiamo fare, accettare i limiti, le nostre imperfezioni come sfida per migliorare. Alla fine se il pubblico vede che sei bravo, che metti tutto te stesso, anche se non sei perfetto, ti perdona. Alla fine il pubblico ti chiede solo di arrivare al suo cuore, di essere umano sul palco e di essere onesto nella tua competenza.

Le parole di LeBron Johnson, piene di amore e di spiritualità, arrivano come un incoraggiamento verso la vita, come una carezza di Dio, così sento di esplorare il polo opposto, per dare più valore a quanto sta condividendo.

  • D: Cos’è che ti fa arrabbiare? Ci sarà una volta in cui tu proprio ti arrabbi! E che effetto ha su di te la musica quando ti arrabbi?
  • R: Quando sono arrabbiato mi metto a scrivere brani e, mentre scrivo, penso, ho la possibilità di riflettere, di ragionarci su. Mi arrabbio tantissimo quando vedo persone che fanno fatica a pensare, non so come dirlo. E le persone che fanno finta. Grazie per questa domanda difficile. È come se tu mi conoscessi già. I membri della band mi hanno fatto notare spesso che sono sempre sorridente. Un giorno ho confidato ad Andy che ho un problema con la rabbia (la rabbia è stato il vero problema con mia madre). Quando mi arrabbiavo, tutto era nero. Ora sono cambiato, sono arrivato ad un certo punto che quando mi arrabbio inizio a pensare, a ragionare. Io vedo persone con le facce dipinte che fanno finta di essere buone ma si vede subito che non lo sono. Mi piacciono le persone che ti fanno vedere quello che sono e quello che pensano. Per questo dico che non ho mai subito razzismo in Italia, perché, per esempio, mi piace quando mi fai vedere che mi odi, quando lo fai vedere che non ti piace questo ragazzo. Ma quando non me lo fai vedere, perché hai fifa, quindi hai paura e fai finta, è orribile. Ho un fiuto speciale per le finzioni. Anche questo mia mamma me lo diceva: “Johnson sei come me: dopo tre mesi che stai con una persona la conosci”. Non so se sono riuscito a spiegarmi.
  • D: Mi hai fatto arrivare il senso. Molto toccante tra l’altro. Quando hai cantato “All about you”, hai confessato che il protagonista della canzone, ingannato dalla sua ragazza, eri tu. Una storia sbilanciata, tu innamorato, lei, presumibilmente, no. Alla fine non si è capito perché stesse con te.  Immagino sia stato un dolore. Che rapporto hai col dolore? Come te la sei cavata? Secondo me, la gente che fa finta, quando non si mostra per quello che è o non è disponibile a confrontarsi, ti ruba la dignità. Se mi ferisci e lo fai onestamente, possiamo confrontarci, se invece mi rubi la dignità attraverso la menzogna, mi rubi la possibilità di confrontarmi. È questo il senso, giusto?
  • R: Wow! Hai spiegato esattamente quello che volevo dire.
  • D: Quando un dolore ci viene da un nostro simile, è come se, per un attimo, fossimo bambini, come se non avessimo difese e qualcuno ci colpisse, sapendo che non abbiamo difese. Anche questo toglie la dignità. Che rapporto hai col dolore? E com’è andata con questa ragazza: continui a dedicarle canzoni e magari non le frega un cavolo.
  • R: Ho sempre avuto una relazione distruttiva, tossica col dolore. In Nigeria, con il mio più caro amico, abbiamo provato a suicidarci due volte, quando sono arrivato in Italia, dopo l’esperienza che ho avuto con questa ragazza, ho provato altre tre volte, alla fine per fortuna non l’ho fatto. Con questa ragazza è stato devastante. Voglio aprirmi totalmente e dirti questa cosa che ha a che fare col dolore: in Nigeria avevo conservato la mia verginità perché volevo succedesse per amore. Quando sono arrivato in Italia e ho conosciuto questa ragazza, mi sono innamorato profondamente e ho perso la mia verginità. Da quel momento lei ha iniziato ad odiarmi, mentre io l’amavo. È stato molto doloroso. Alla fine ho scoperto che doveva sposarsi, quindi sono rimasto malissimo. In fondo il vero problema è la finzione. “Parla con me – le ho detto – perché non mi dici come stanno le cose? Se vuoi sposarti, ok, ma perché mi odi così tanto, perché mi tratti male?” Il mio rapporto col dolore è cambiato. Adesso odio la tossicità nel dolore. Quando provo dolore, cerco di affrontarlo, di viverlo, di trasformarlo in qualcosa che mi faccia crescere, di offrirlo a Dio. La tossicità è un po’ come mettere della vernice sulle crepe di una casa, invece di fare un lavoro più profondo. Non vado più a dipingere la crepa perché non si veda, non faccio più finta, non indosso una maschera, piuttosto distruggo quella casa e la ricostruisco. Quando sento il dolore, vado giù, fino in fondo e mi riprendo, non faccio finta di niente e questo mi aiuta tanto. Con la mia mamma, tenevo tutto dentro, facevo finta e poi scoppiavo, avevo la sensazione di non farcela più. Adesso, quando sento dolore, piango, non mi vergogno più di piangere, e alla fine mi riprendo.
  • D: Secondo te come hai fatto a non morire in questi suicidi, perché bisogna essere proprio incapaci per non riuscirci dopo vari tentativi? (Ridiamo insieme fragorosamente, sento che posso essere ironica senza rischio di fraintendimenti).
  • R: Incapace suicida, ma capace di far musica. È Gesù, attraverso la musica, che mi ha salvato.  
  • D: Hai tentato di suicidarti e non ci sei riuscito. Come è potuto succedere?
  • R: In Nigeria, il mio miglior amico, con cui ho condiviso tutto. Si chiama Justis. Lo conosco da quando eravamo piccoli. È lui che mi ha insegnato a suonare la chitarra, a scrivere brani. Mi ha aiutato tanto. Per rispondere alla tua domanda, non passavamo all’azione, erano soprattutto pensieri suicidi. Ricordo un giorno che eravamo insieme e stava arrivando una macchina. Mi disse che voleva buttarsi sotto quella macchina in quel momento. E io gli risposi che avevo in mente la stessa cosa, che avremmo potuto farlo insieme. Allora lui ha precisato che era meglio farlo un altro giorno. E quando gli ho chiesto il perché, mi ha risposto: “Ho paura!”
  • D: Ah ecco, ti chiedo scusa, non sei stato incapace (ridiamo ancora, sento che sicuramente questo argomento non è un tabu). Era un’idea, non ci hai provato concretamente. Quando arrivava un pensiero suicida, cambiavi idea. Per paura? O perché già lo sapevi che la musica ti stesse aspettando?
  • R: Si, la musica mi aspettava e non solo. Ho un bellissimo rapporto con i miei fratelli. Anche questo è merito di mia madre che ci ha sempre aiutati ad essere uniti, a volerci bene. Così, ora non mi suiciderei anche per questo.
  • D: Qual è il brano che ascolti quando ti vuoi ritrovare?
  • R: Per ritrovarmi, di solito, ascolto brani miei o del mio amico. Le cose che registravamo. Da un po’ di tempo mi sono innamorato di John Mayer. Ha scritto questo brano incredibile, “Edge of desire”. La traduzione in italiano credo sia “L’apice del desiderio”, sai, quando stai in cima e rischi di cadere, è quello l’apice, giusto? Già solo questo titolo mi colpisce e il brano, a livello musicale, mi piace tantissimo. È bello.
  • D: Un’ultima curiosità: come bisogna chiamarti? Ti chiamavo LeBron, poi sento che tutti ti chiamano Johnson, e voglio chiamarti correttamente, perché il nome è importante, è il primo segno di riconoscimento. Il tuo nome, qual è?
  • R: Quando sono sul palco mi chiamo LeBron Johnson, quando scendo dal palco mi chiamano Johnson.
  • D: Mi piace l’idea di chiamarti in modo diverso a seconda dei contesti, allena il sistema propriocettivo. Grazie di cuore per esserti aperto. Ci vediamo il 23 luglio. Non vi perderò. 
  • R: Grazie a te. È stato un vero piacere.

LeBron viene inghiottito dal bancone del bar ristorante e finalmente mangia qualcosa, io mi trattengo con i pochi rimasti per due chiacchiere. La serata si diluisce nella notte. Monto in macchina e mi accorgo che il navigatore non funziona. Mi perdo nella campagna umbra e sento che ne avevo bisogno. In macchina con me, tante immagini si accavallano e mi tengono compagnia, la radio suona musica soul-blues e dai finestrini aperti un’aria estiva pervade tutto l’abitacolo abbattendo ogni confine.

(M.P.)

Una risposta a “SERVITORE A TEMPO PIENO: INTERVISTA A LEBRON JOHNSON, CANTORE DI DIO.”

  1. Grazie molto bello questo racconto di vite.
    Non sono li ma è come se lo fossi.

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