UN INCONTRO DI CUORI A RITMO DI BLUES IL CONCERTO DELLA TREVES BLUES BAND E DI EUGENIO FINARDI SPECIAL GUEST

UN INCONTRO DI CUORI A RITMO DI BLUES IL CONCERTO DELLA TREVES BLUES BAND E DI EUGENIO FINARDI SPECIAL GUEST

Il caso non esiste. “Sono liberi questi posti?” Trasimeno Blues è anche questo: incontrare amici probabilissimi (con cui si condivide la passione per il blues, il teatro, l’arte e tanto altro) che inciampano su di te (che con una marea di persone stai aspettando Finardi e la Treves Band) per sperare che il posto libero nella sedia accanto alla tua sia disponibile, mentre le gradinate e il prato intorno continuano a riempirsi. Una magia l’incontro con Antonella e Sabine (due amiche storiche), celebrato con una buona birra ghiacciata. Quando torno in Umbria, di solito, mi concedo uno spazio dedicato agli amici, come tempo privilegiato del cuore. Uno spazio per me vitale, rigenerante, familiare. Eppure questa volta, immersa nei ritmi del festival, ho trascurato questa abitudine sacra e ho potuto solo immaginarli questi incontri, tra una nota e l’altra, un articolo e l’altro, una presentazione e l’altra, in un susseguirsi di emozioni e di ricchezza che, in questo festival, è stato incredibile: concerti ed eventi di altissima qualità, un’energia collettiva travolgente e una partecipazione di pubblico quasi sempre sold out. Con la musica di Finardi, noi della mia generazione ci siamo cresciuti e abbiamo considerato un plus-valore sia la sua origine blues, sia il fatto che abbia dedicato a questo genere musicale un intero lavoro con la pubblicazione del suo album “Anima Blues” del 2005, sia il consolidato rapporto speciale con Fabio Treves. Inoltre, nel corso di tutti questi anni, ci siamo rifugiati nelle note dell’armonica di Fabio Treves e della sua Band tutte le volte che abbiamo avuto nostalgia di sonorità blues nostrane che sono quasi più blues del blues. “Sono stato sempre fedele al blues”, racconterà più tardi il Puma di Lambrate durante l’intervista televisiva del post concerto. Stasera c’è un’emozione particolare nell’aria, perché è la prima volta che suonano insieme a Trasimeno Blues e c’è grande attesa oltre agli interrogativi che serpeggiano tra il pubblico su quale sarà la scelta della scaletta.

Siamo noi, la generazione tra i 45 e i 75 anni, che arriva a questo concerto con tutto il suo passato musicale: “brani storici che ballano dentro, sotto la pelle”, le immagini di una vita intera indissolubilmente legate alla musica e la certezza di sorprenderci ancora. E così è: il concerto di stasera è stato fantastico, ha fatto il tutto esaurito al botteghino e il pubblico ritardatario ha trovato posto sulle porzioni di prato laterali alla gradinata. Non male. A volte il prato è più comodo delle sedie, smentendo il vecchio detto “Chi tardi arriva, male alloggia!”.

Con un’emozione matura, ci mischiamo con altre generazioni, condividendo la profonda convinzione che la musica ci unisca. Il pubblico è variegato, ci siamo tutti: piccoli, medi, grandi e sembriamo tutti della stessa età, tra giovani e “diversamente giovani”, come si definisce Fabio Treves durante il concerto. Due chiacchiere senza filtri tra noi e tanta curiosità. Lo sappiamo tutti che non resteremo delusi, o meglio, che se questo succedesse, dovremmo preoccuparci.

Finardi, con la sua musica, ha rappresentato una dimensione di libertà in cui sublimare i sogni originati dagli imbrigliamenti socio-culturali e lo ha fatto “anche dolcemente e consapevolmente; quello che noi abbiamo scoperto con tanta fatica, Finardi ce l’aveva già dentro”, commenta Antonella, una delle mie due amiche ritrovate “per caso” (sempre quel caso che non esiste). La musica di Finardi non è stata una ribellione isterica, quanto piuttosto una prospettiva cui affidare i propri sogni, con sincerità. Antonella è una guida turistica e, nell’attesa delle prime note blues, mi racconta i segreti storici e artistici della suggestiva rocca federiciana in cui ci troviamo, anticipandomi quello che ho chiesto di fare a Nadia (esperta di arte e collaboratrice del festival) il giorno in cui l’ho conosciuta.

Buonasera, benvenuti a Castiglione del Lago. Stiamo entrando nel vivo di questa ventisettesima edizione di Trasimeno blues”. Il direttore del Festival, dopo aver ricordato gli appuntamenti per il giorno successivo, introduce la serata. “Abbiamo con noi due pesi massimi della musica italiana e del blues che sono di casa al festival. Ogni volta è un grande evento per me e una grande emozione presentarli. Quest’anno è la prima volta che sono insieme sullo stesso palco: Treves Blues Band, special guest Eugenio Finardi.”

Alex Kid Gariazzo (chitarre, mandolino, ukulele, voce), Gabriele Dellepiane (basso), Massimo Serra (batteria) aprono il concerto. Introdotto da Alex Kid dopo il primo brano, quando il Puma di Lambrate e la sua armonica arrivano sul palco, statene certi che è blues. Le sue parole sono piene di garbo e di accoglienza. Ringrazia il pubblico, manda un abbraccio a Gianluca Di Maggio e lo definisce come “un quinto elemento della Treves Blues Band”. Il secondo brano in scaletta è “Minglewood Blues” di Lewis Noah, in cui c’è già tutto l’incanto della Band. “Un traditional arrangiato alla Treves Blues Band, cambio di chitarra, cambio di atmosfera, cambio di emozioni, non siete sulle gradinate della fortezza di Castiglione del Lago ma siete in uno di quei localini di Memphis, Chicago, New Orleans, New York dove sul palco c’è una band, capitanata da un diversamente giovane armonicista, e lì ci sono dei tavolini dove lui guarda lei, lei guarda lui, lui guarda lui, lei guarda lei, insomma ognuno guarda qualcuno” Con queste parole Treves annuncia il brano “The Devil and the deep blue sea”. La parola passa all’armonica, sostenuta dagli strumenti della band e ci accarezza, con un’onda morbida e avvolgente, che ci riporta davvero oltre lo spazio, in un contesto blues di un’America che ti accoglie, senza chiedersi troppo su chi o cosa “stai guardando”. Kid annuncia il brano successivo, “Don’t Start Me To Talking” di Sonny Boy Williamson, con il quale si ritorna al blues di Chicago, più tipico. Intanto, mentre gli strumenti si tengono caldi, Fabio Treves cerca di trovare un qualche sollievo dai moscerini: “Io ho già cenato ma, il moscerino è infimo, entra nell’armonica” e te lo trovi all’improvviso in gola. Le luci del palco funzionano come un richiamo e tutti i moscerini della zona si radunano per divertirsi un po’. Mi piace che Fabio Treves non si turbi più di tanto. E non so se è perché la band accetta la provocazione o ha ricevuto un cachet anche dai moscerini per animare la loro festa privata, fatto sta che suonano alla grande, con una tecnica straordinaria e una capacità interpretativa matura e solida che permette alla creatività di stupire. Ed è ancora blues. Con il brano successivo, “Heaven in Hell” scritto da Alex Kid Gariazzo, i toni musicali si distendono, in una melodia lasciva e avvolgente a cui fa seguito “The midnight Special”. Il treno di mezzanotte e il suo mito. “A Sugar Land, nella contea di Fort Bend, in Texas c’era un carcere e di lì passava un treno, appunto, a mezzanotte. La leggenda racconta che se con i suoi fari il treno avesse illuminato la cella di un carcerato, di lì a poco lui sarebbe stato liberato. Il ritornello di questo traditional dice: lasciate che il treno di mezzanotte mi illumini con la sua luce”. La band presenta il brano in una versione avvincente che è una vera e propria immersione blues in cui perdersi per ritrovarsi, sognare per guarire, immaginare per prepararsi al viaggio verso la liberazione. La stupefacente armonica del Puma di Lambrate e tutti gli strumenti non sono solo groove, melodia, sound, costruiscono i rumori di fondo di un contesto fisico ambientale (dal cigolio del treno sulle rotaie, al suono delle inferriate del carcere) e di un corrispondente contesto interiore (il rumore dei pensieri e il suono dei desideri). Ascoltarli è un viaggio pluridimensionale di cui fidarsi. Hanno una padronanza strumentale che non lascia dubbi. Ecco, sì, la musica di questa straordinaria band, è affidabile: hai la certezza che non ti tradirà, che sa esattamente dove e come ti sta portando dall’altra parte della riva e sai che non ti abbandonerà a metà strada, anzi, ti riaccompagnerà a casa con il risveglio negli occhi e il cuore straripante di emozione. Queste riflessioni mi fanno pensare al lavoro di Herns Duplan e alla parte in cui fa sperimentare una sorta di “trans cosciente”, in cui ti spingi oltre e sei ancorato ad un profondo livello di coscienza per cui nessuno può portarti via.

È un po’ il contenuto della riflessione fatta da Finardi nel backstage post concerto quando gli ho chiesto che tipo di responsabilità agisce verso la musica e verso se stesso. Quando la creatività è al servizio di processi artistici e di improvvisazione, pretende che la base tecnica sia estremamente solida. La musica ha sempre qualcosa da insegnare rispetto a noi stessi. “La cosa che più ammiro di Fabio è la disciplina. A volte limita la possibilità di inciampare nella creatività, nel perdersi, nella follia, nel perdimento. In questo periodo, nel blues e nella musica, cerco il perdimento che non è perdersi ma è ritrovarsi nella dimensione naturale, quando ti lasci andare. La gente dice: ‘Non so nuotare’. Non è vero! Se tu stai fermo in acqua e respiri piano l’acqua ti sostiene. In quel momento hai la possibilità di abbandonare il corpo, rilassare ogni muscolo. La musica ha questa stessa dimensione. I suoni che faccio con la voce non sono solo effetti, sono come dei paletti che delimitano tutto quello che abbiamo dentro, che si muove. Credo che la musica sia ad un livello superiore della parola. La parola, se cambi paese, cambia suono, cambia lingua e la poesia non ha più lo stesso identico sapore, invece la musica è veramente un linguaggio universale, non solo in Terra. Tutto l’universo funziona su una vibrazione. Noi siamo vibrazioni e la musica organizza un piccolo range di vibrazioni ma esiste ovunque. Se si trasponesse Bach, non so, per una società che ha un’atmosfera di metano e di tutt’altra densità, quel Bach avrebbe senso comunque, perché dentro Bach ci sono le regole fondamentali dell’universo e questo è in tutta la musica. La musica ci collega direttamente con l’Assoluto Universale. Per cui, in un certo senso, essere un po’ anche un’anima persa, o in grado di perdersi, o disposta a perdersi, ti permette, a volte di trovare, di ritrovarti in luoghi o di trovare luoghi nella tua anima che sono nuovi, che sono diversi e, comunque, che vengono fuori: stasera ci sono stati un paio di momenti in cui, veramente, la consapevolezza era altra, non c’era ragionamento, c’era puro abbandono. Questo è secondo me il senso”.

In questo viaggio tutto blues, il treno di Treves prende velocità e si percepiscono le sue luci in corsa, il panorama che si omologa in macchie di colore perché la velocità impedisce di percepirne le forme che si possono solo intuire. Ogni singolo elemento, musicale e umano è intriso di blues. Treves presenta la band: “Al basso elettrico Gabriele Dellepiane, alla batteria Massimo Serra e, come succede ai concerti della Treves Band, dopo il blues di Chicago, dopo il blues degli anni Trenta, è la volta di Alex the Kid Gariazzo, solo chitarra”. Si allontanano tutti dal palco per lasciare che la chitarra di Alex si goda il suo trionfo, accompagnata solo dalla voce dello stesso chitarrista. Un’interpretazione intrigante e accattivante che avvolge il pubblico, ancora una volta, oltre lo spazio. A fine brano, tornano tutti per condurci nel blues delle Prison Song, con il brano “Take this hammer” che risale al tempo degli schiavi: “Prendi questo martello, portalo al capitano, se ti chiede se me ne sono andato correndo, digli che me ne sono andato volando, se ti chiede se me ne sono andato ridendo digli che me ne sono andato piangendo”. Il brano viene proposto in un loro arrangiamento che mischia la tradizione afro con quella jamaicana. In questo brano Alex suona l’ukulele. Gli strumenti si fondono per sognare la libertà. E la scena passa a Massimo Serra, che inizia un dialogo con il pubblico fatto tutto di fraseggi alla batteria ripetuti ad eco con il battito delle mani del pubblico. Il tocco di Massimo Serra è potente, presente, senza timidezza e nessuna ostentazione. Suona come se parlasse come un autorevole saggio che è in grado di tuonare un rimprovero ben assestato o di incoraggiare dolcemente, a seconda dei casi, perché sa guardare lontano e conosce la vita, infatti il batterista spazia da ritmi quasi tribali a ritmi più sofisticati. E questa caratteristica riguarda tutti i musicisti della Treves Band, a partire dal suo leader. Le entrate dell’armonica sono sorprendenti. Tutto è cosciente eppure creativo, sembra che Apollo e Dioniso si siano fusi in un’unica entità che si sia incarnata in tutti i musicisti della band. Parlano lo stesso linguaggio e, proprio per questo, possono emergere nelle singole individualità. Ognuno è totalmente responsabile ed autonomo e, contemporaneamente, sono insieme in un intero che incanta. Gli assoli dei singoli musicisti, sono un concerto nel concerto. Quando, per curiosità, ho chiesto a Massimo Serra, perché ha scelto di suonare la batteria, con una risata spontanea e sincera, mi ha fatto entrare nelle dinamiche familiari e nella ricostruzione di un destino tracciato. “Me lo dice sempre anche mia mamma. Potevi suonare il pianoforte, il flauto”. Ho immaginato il desiderio di pace della mamma. “Mio nonno suonava la batteria, il mio papà suonava la batteria e poi ho avuto la fortuna di andare ad abitare in un posto dove, dietro casa mia, viveva un batterista, per cui dovevo assolutamente suonare la batteria. Da piccolo sono sempre stato ritmico istintivamente. Non suono solo la batteria, costruisco strumenti con materiali di riciclo. A casa ho circa duecento strumenti costruiti con bidoni, lattine, plastica, vetro, ferro, a fiato, a percussione. Tengo dei corsi nelle scuole per i bambini.” Suona con Treves da trent’anni e tra loro c’è una conoscenza profonda che sicuramente permette loro di esprimersi con amore, nell’amore che è libertà, coraggio, creatività e responsabilità. Mi colpisce il racconto dei laboratori per i bambini, tocco l’animo civico e sociale di questo artista. Quando gli parlo di anima, scherza come a sminuire il valore delle sue iniziative: “A Roma dicono, l’anima de li mortacci tua!”. e ci scappa una risata. Dare opportunità ai bambini di scoprire i loro talenti, i loro gusti, le loro passioni è un dovere, perché è una porta di felicità che va oltre le proprie condizioni economiche, di salute, di vissuto ed è una risorsa incredibile. “Collaboro con il prof. Giorgio Fabbri con cui facciamo anche delle convention in grandi ditte in cui lui spiega il parallelismo tra le dinamiche aziendali e quello che succede sul palco. Se ognuno di coloro che lavorano in queste grandi aziende facessero tra loro lo stesso tipo di lavoro che facciamo noi, occupandosi ognuno del suo, facendolo bene e con amore, succede qualcosa di particolare. In questi incontri con i dirigenti, suoniamo (rock, blues) e Fabbri fa dei paragoni per far capire loro che con la collaborazione, mettendo ognuno il proprio sassolino, vengono fuori cose, magiche”. La competizione annienta la creatività collettiva. La co-costruzione è magica e so che impone quella che considero l’essenza dei miei corsi sulla relazione, cioè di saper smaltire i propri rifiuti interiori ecologicamente senza spargerli irriverentemente sugli altri.

Uno dei momenti più emozionanti è stato il dialogo tra armonica e batteria con basso e chitarra di supporto, per non parlare del mix di grandi successi (il loro “personalissimo tributo” alla musica dei Rolling Stones, di Santana, di Hendrix, degli Who) con i passaggi tra un brano e l’altro perfettamente armonizzati e fusi, in una successione senza tregua, evocativa, eccitante e di profonda emozione. La Treves Band vola. E immagino che potrebbero dirci: “Se vi chiedono se abbiamo suonato correndo, dite che abbiamo suonato volando”, nel senso che bucano il cuore fino ai confini del blues. Ed è con questa energia coinvolgente che Fabio Treves introduce Eugenio Finardi come special guest. Lo presenta come il suo “blues brother”, con cui ha condiviso “quel bellissimo periodo” degli anni Sessanta. Amato e attesissimo dal pubblico, Finardi arriva con il suo fascino maturo e saluta con la sua voce profonda e voluttuosa. I due amici scherzano, dalla segnalazione di un ipotetico scarafaggio sul fondo schiena (“Sarà uno del Beatles! I’ve got a beatle on my ass”, commenta Finardi) al decidere se raccontare o meno dettagli della storia della loro amicizia e intanto gli strumenti si preparano alla seconda e attesissima parte di questo meraviglioso concerto. Il botteghino ha fatto sold out: tutte le sedie delle gradinate sono occupate e ci sono anche spettatori accampati sul prato scosceso laterale ai gradoni. Unico aspetto critico, le luci, poco curate e poco armoniche rispetto agli elementi scenici: un faro che per alcuni minuti ha accecato il pubblico ostruendo la visuale ha destabilizzato a tratti l’atmosfera.

Questa è una canzone tratta da ‘Anima Blues’, il mio disco dei sogni. Il mio disco blues del 2005. Mamma mia, quanto tempo è passato! Sarebbe ora di farne un altro”. “Magari”, penso. E so che lo pensiamo tutti. Introduce così il primo brano della sua esibizione con la Treves Band. “Questa è una canzone che originariamente avevo scritto con Massimo Martellotta, si chiama ‘Heart of Country’ ed è un immaginario viaggio lungo le rive del Mississippi”. Nell’interpretazione di questa canzone, Finardi è amorevole come una carezza e virile come una montagna. Esprime una vocalità rassicurante, profonda e tenera. Segue un avvincente medley dal fiato lungo in una successione ininterrotta fatta di sfumature e di sonorità che si appoggiano su una costante blues. Finardi, Treves e la band hanno fascino, dominano il palco con quella responsabilità che è amore, con quella consapevolezza che deriva da una grande esperienza artistica, da un rigore impeccabile e una creatività teneramente “ribelle”. Sanno esattamente cosa chiedere a se stessi, agli strumenti e lo chiedono senza indugio, senza gratuità od omissioni. Dominano il tempo e lo spazio. Sanno come sedurre il pubblico e come riposarsi. Sanno. E questo rassicura e apre ad un’esperienza musicale profonda ed esaltante, oltre a permettere di vederli “inciampare” in quel perdimento creativo di cui parlava Finardi.

In una chiacchierata fuori concerto, per rispondere ad una mia curiosità sul suo rapporto con la misura, Treves chiarisce i cardini della relazione professionale della band, funzionali alla performance artistica musicale: “Siamo molto felici quando riusciamo a trasmettere alla gente non soltanto le emozioni legate a quel brano, a quell’assolo, ma a dare il senso che sul palco ognuno di noi rispetta le misure dell’altro musicista. Non è soltanto una questione di rispetto e di sensibilità o di educazione, ma è un rispetto dovuto ai tanti anni che abbiamo suonato insieme su un palco”. Questo è la differenza che fa la differenza “rispetto ad altre performance dove sicuramente c’è più spettacolo, però c’è meno quest’attenzione sul palco al discorso della misura. Nessuno va oltre e tutti si esprimono dando ciò che sono, né di più, né di meno di ciò che sono”. Questo richiede grande coscienza e l’intelligente convinzione che il risultato di una performance dipende molto anche da questo tipo di equilibri che, uniti ad una disponibilità creativa, possono, come diceva Finardi, aprire al “perdimento”. La prevaricazione impedisce la conoscenza, il rispetto svela le pieghe nascoste della realtà. In natura nessuna pianta si appropria di ciò che non le serve o invade spazi che non le competono. Una band come quella di stasera è stata come un orto sinergico, in cui ognuno ha preso ciò che gli serviva per dare il meglio di sé amalgamato al meglio del gruppo per un concerto di coraggiosa e cosciente bellezza. Tutti insieme hanno prodotto un cesto di frutti della terra salutari e buonissimi. L’amore è soprattutto questo. Chissà se un giorno saprò impararlo davvero.

In merito alla scaletta, la scelta degli artisti è stata quella di attenersi rigorosamente a brani blues, eppure, nel cuore della gente, una flebile speranza di ascoltare un paio di brani del Finardi cantautore è stata coltivata fino all’ultimo, anche se, in realtà, forse, una tale scelta avrebbe rotto un incantesimo in favore di una saudade musicale fuori contesto. Forse Finardi stesso aveva bisogno di riconnettersi in modo esclusivo a questa sua dimensione blues e rinfrescarla per lasciarsi ispirare ancora. Il concerto volge al termine e Fabio Treves, partendo dal basso e dalla batteria, presenta la band, unendo ogni musicista ad un dettaglio che lo riguarda. Infine si avvicina a Giuvazza (chitarra elettrica), entrato in scena con Eugenio Finardi, nella seconda parte del concerto. “Mettiti di profilo e ditemi se non assomiglia a Sean Penn”. Molti dal pubblico approvano, mentre Treves ne tesse le lodi artistiche e affettive. Prosegue Finardi che crea una suspence narrativa per presentare Fabio Treves. “Una volta, a Milano c’erano due scuole di blues. Non lo sapevamo. C’erano due gruppi di persone che suonavano il blues. Uno a nord, a Corso Sempione Blues, dove eravamo io, Camerini, Paolo Donnarumma. Ci arriva voce che c’era questo straordinario armonicista nella zona sud di Milano. Dovete capire che è un po’ come a Siena: a sud di Piazza del Duomo, a Lambrate, a Linate, son già col piede quasi in Africa”, ammette che sta scherzando. “In realtà eravamo tutti molto curiosi. Abbiamo preso tre autobus, persi nell’hinterland milanese, e siamo arrivati a sentire Fabio Treves.” Con folklore racconta che sono rimasti ammirati. “Come dicono in America, se non puoi vincerli, unisciti a loro. Dal ’67 io conosco quest’uomo, Fabio Treves, il papà del blues”. Naturalmente in questi passaggi narrativi che emozionano il pubblico perché gli permettono di accedere a pezzi di vita che offrono prospettive e ispirazioni, gli strumenti della band, abbassano e alzano il volume a seconda se ci sia da sottolineare, dare spazio o occuparlo. Ora è la volta di Treves che introduce Finardi per il commiato definitivo: “Adesso ne racconto una io. Negli anni ’60, ogni scuola mandava la sua band nei primissimi contest studenteschi. Suonavo blues in un gruppo e non vincevamo mai. Dal Liceo Americano arrivava un gruppo con uno, tutto figo, biondo, magro, con la sua chitarrina, cantava nell’inglese e nell’americano quello giusto (noi bofonchiavamo) ed era circondato dal grande pubblico degli estimatori, pieno di ragazze che gli buttavano di tutto (a noi buttavano carciofi).” In un attimo ci riporta indietro nel tempo, alle immagini della giovinezza e ci consegna quegli aspetti di Finardi, non essenziali, che ne hanno, da sempre, sottolineato il fascino, a cominciare dalla mamma americana (cantante lirica) che gli ha donato un inglese perfetto, raro da trovare tra gli italiani, ancora oggi, e un passe-par-tout somatico. Treves chiede per Finardi un applauso che faccia dire a Siena, “Cosa sta succedendo sul Lago Trasimeno?” Ed è l’ultimo brano. Treves ringrazia i tecnici, l’organizzazione, Gianluca Di Maggio e il pubblico che, naturalmente chiede un bis e viene accontentato con il brano “The blues is allright”. Ci tiene a sottolineare che il blues sta bene anche grazie a manifestazioni come Trasimeno Blues e ricorda che pochi giorni fa è stato il compleanno di Eugenio Finardi (il 16 luglio). Il cantautore durante il bis, coinvolge il pubblico nel ritornello ed è con questa energia, semplice e sapiente, che si chiude la terza serata del festival, in un’atmosfera tutta fantasticamente blues.

(M.P.)