GUARDARE OLTRE QUANDO PENSI CHE UN OLTRE NON CI SIA.

GUARDARE OLTRE QUANDO PENSI CHE UN OLTRE NON CI SIA.

“La musica e il ritmo trovano la loro strada nei luoghi segreti dell’anima” (Platone). Questa definizione, che è giunta fino a noi dall’antica Grecia, è la risonanza che mi abita dopo il concerto degli Hoodoo Doctors & The Kazoompet Machine, un gruppo strepitoso che ha accompagnato il pubblico di Trasimeno Blues (edizione 2023) nella seconda parte della serata alla Rocca di Castiglion del Lago, il 21 luglio. Il loro nome un po’ gioca e un po’ svela. La kazoompet è un’insieme di strumenti ritmici percussivi e sonori e non un’arma segreta: ogni sorta di “stranezza” sonora, posizionata in prossimità del pianoforte, in attesa che le magiche mani di Simone Scifoni (pianoforte, Kazoompet) le rendano felici. Simone Scifoni, oltre ad essere uno straordinario musicista eclettico, ha un’etichetta discografica (la “Bloos Records”), con cui sta producendo molte proposte interessanti. Si aggiungono, altrettanto straordinari, Andrea Ricci (voce, stomp bass, washboard) con ulteriori strumenti di fortuna, le cui sonorità gonfie e particolari, enfatizzano il ritmo della band, Lino Muoio (mandolino, chitarra) e Davide Richichi (tromba) che tracciano la scia musicale dentro la quale perdersi in un viaggio avvolgente che vibra sotto la stella del blues. Romani, tutti fantastici e talentuosi. La voce principale è quella di Andrea Ricci, calda e, a tratti, malinconica, a tratti, graffiante, sempre emozionante. Anche le altre voci sono ben connotate, ognuna diversa, con peculiarità proprie, tutte capaci di toccare corde emotive in sintonia con gli strumenti e con la dimensione melodica. Il blues non solo lo suonano, lo vivono e lo fanno vivere. Questo lo si evince da tanti dettagli, non solo tecnici e interpretativi, anche dal fatto che, sulla scena musicale, convivano strumenti ricavati da attrezzi preposti ad altre funzioni e trasformati in produttori di note, evocando le orchestrine blues della prima stagione. “Siamo quattro musicisti appassionati di blues pre-bellico, quello con la B maiuscola. È semplice andare a ricercare quel tipo di linguaggio e riportarlo a oggi. È pura passione, viene naturale”, racconta Scifoni in una chiacchierata post-concerto. In realtà sono dotati di profonda abilità tecnica strumentale e di coraggio interpretativo per un risultato musicale di altissimo livello. Si presentano essenziali, sul proscenio del palco, allineati, per contenere, simbolicamente, la turbolenza emotiva tipica del blues e sprigionarla nel loro sound, così ancorato alle origini e, al contempo, così singolare ed estroso. Dalle prime note, la loro interpretazione arriva potente, “senza passare dal via”, dritta dentro l’anima. Il primo brano è “Root Hog, or Die”. “Una sorta di motto che si fa risalire, addirittura, alla guerra di secessione in cui, o resisti o muori. Questo significato ha subito nel tempo la sua evoluzione. Il brano parla di un adulto che presenta ad un ragazzo la dura realtà della vita, in cui bisogna darsi da fare, sbattersi per strada, trovare un modo per campare, per farsi la propria vita e portare a casa la giornata. Nel blues, “Root Hog, or Die” assume un senso di resilienza. Resisti o Muori: crudo, duro, vero”, racconta uno di loro. Ci si ritrova, magicamente in un’atmosfera blues, in cui sfumature interpretative penetranti si appoggiano su di un sound solido, fatto di maestria musicale, profonda onestà artistica e gioiosa creatività. Con la loro musica, gli Hoodoo Doctors & Kazoompet Machine riescono a traslare nel tempo e a evocare percezioni sensoriali, non solo emotive: ci si ritrova in suggestioni blues dei primi del Novecento, con odori, immagini, sapori, sonorità, atmosfere di un’ambientazione consegnata alla storia del blues. Il loro modo di suonare, apparentemente fluido, è denso di modulazioni toccanti e abilità musicali sofisticate. “Sembra di fare un viaggio sensoriale extratemporale”, commenta Anna Maria, un’amica speciale seduta accanto, appassionata di blues e di Pasolini. “È un piacere arrivare da Roma qui a Trasimeno Blues in questo luogo che non conoscevo”. Andrea Ricci saluta il pubblico e presenta la band e la loro musica: “Siamo un po’ fuori mano, mettiamola così, perché andiamo a ricalcare le orme di quelle che sono state le orchestrine blues Anni Venti, Trenta, Quaranta del Novecento. Parliamo ovviamente di America. Da lì abbiamo importato questo genere musicale e il prossimo brano è un grande classico che abbiamo rimaneggiato alla maniera degli Hoodoo Doctors. È la storia di una donna molto particolare, con i suoi pregi, i suoi difetti, può piacere, può non piacere, ma lui la ama così com’è. Il blues non è altro che la condivisione di un’emozione. Voi ascoltate e rispondete”. Sono queste le premesse da cui parte Andrea Ricci per coinvolgere il pubblico già dai primi brani in un coro di botta e risposta nel refrain “Crazy ‘bout my baby”. I brani in scaletta sono prevalentemente grandi classici del blues che appassionano sempre, soprattutto se proposti con arrangiamenti, sound e stile interpretativo coinvolgente e generoso. Il pubblico viaggia attraverso i temi del blues: “donne, coltelli, la vita in genere perché di quello si parla”, in un’immersione blues che, mentre commuove il cuore, lo fa gioire. “E’ quello che facevano i neri: suonavano nelle orchestrine canzonette ballabili, la gente si divertiva nei Juke Joint ma i testi rappresentavano durezza, crudezza, momenti di vita difficile. È il loro spirito, quello di affrontare le cose col sorriso sulle labbra e aspettare che sorga l’alba successiva” sottolinea uno di loro. “In questo tipo di musica, mi sento comodo, nel senso che tiro fuori quello che ho in me: seguire esattamente quello che sta succedendo, nella sua tristezza, nella sua allegria, senza dover forzare una delle due cose. È il naturale equilibrio tra momenti di allegria e momenti di tristezza”, integra Andrea. Come succede nella vita con le sue onde emotive. “Le dinamiche vengono un po’ da sole” aggiunge qualcun altro. “Pronti per questa vita, are you ready?” Il pubblico, a più riprese, partecipa al dialogo con il suo “Yeah”: un sì collettivo alla vita. Eppure, nella domanda posta da Andrea, c’è una profondità che merita di essere esplorata. La vita segue la sua corsa, a prescindere da noi, a prescindere da quanto coraggio abbiamo a vivercela senza protezione, a incontrare le zone cieche delle nostre scelte che poi sono porte di accesso privilegiate per toccare pezzi di profondità del nostro stesso essere. Emoziona la band, quando introduce i brani, contestualizzandone la storia e solleva da terra, conducendo in dimensioni altre, quando suona. Ogni strumento ha quell’autonomia necessaria affinché ci si senta parte di un ensemble armonico, in cui le diverse identità musicali sono riconoscibili. “Il povero Bill, se avesse dato retta alla mamma, sicuramente si sarebbe trovato in situazioni molto ma molto migliori. Quando vai via dalle campagne e fuggi nelle città industrializzate degli Stati Uniti. Va a finire che vivi solo e la vita è dura. Il povero Bill ha tutto questo tempo per ricordarsi che, lontani da casa, non è mai un buon affare”. Ancora vita, in questo brano, evocativo della distanza, della nostalgia, della malinconia che si respirano tra note e testi. “L’abbandono della propria casa, la ricerca di un futuro, viaggiando, allontanandosi da casa, fa sentire l’eco di ciò che ti apparteneva e che, lentamente, si dissolve. Ma lui ha ancora speranza di tornare e unirsi nel canto, con i suoi amici, nella sua vita. Questa è Delta Bound (Duke Ellington). Legati al Delta”. La voce di Andrea sembra abbia proprio note emotive, modulate con grande verità, esalta la narrazione musicale, amplificata dal talento di tutti i musicisti. Il pubblico è totalmente coinvolto raggiungendo quella linea di confine in cui il dolore tocca la gioia di vivere.

Le immagini proiettate sul palco sono molto di effetto. La scritta “Trasimeno Blues” si trasforma attraversando diverse sincronie di colori e di forme geometriche, essenziali o surreali: in contrasto con la rocca antica, creano un’atmosfera morbida ed evanescente, rarefatta nel confine tra le inquietudini profonde dell’esistenza ai margini e quel sorriso che la musica accende quando la si racconta in una certa chiave blues. Nient’altro che la vita stessa, nelle sue pieghe più variegate e nel suo impatto sull’animo umano, così fragile e così resiliente. L’equilibrio è un gioco di opposti in fondo. Seguono brani swing in cui il pubblico è guidato in giochi ritmici per arrivare ad un climax che raggiunge uno dei momenti più esilaranti e, al contempo, commoventi di tutto il concerto: “A noi piace fare cose strane per cui, vi lasciamo a un titolo che ha un testo molto triste. Non ne parliamo. È “St James Infirmary”, brano di origine incerta, reso famoso da Louis Armstrong e che prende il nome dal St. James hospital di Londra, un nosocomio specializzato nella cura della lebbra, chiuso nel 1532 e acquistato da Enrico VIII che lo ha trasformato in una sua residenza. Il testo racconta di un dialogo avvenuto in un bar in cui uno dei due amici, colmo di tristezza, racconta di aver ritrovato la sua donna amata, morta proprio all’interno di quell’ospedale. Scifoni accenna delle note al pianoforte e tutti riconosciamo la colonna sonora de “Il Padrino”. Il finale della canzone “St James Infirmary” è molto toccante, con la voce di Ricci che sembra faccia vibrare direttamente il cuore, per poi sfociare nuovamente nelle note del capolavoro di Coppola. Ancora una volta ci fanno commuovere e sorridere, ancora una volta ci portano sulla linea di confine, su quell’oltre invisibile (come dice la mia amica Marina Sannipola) in cui emozioni opposte riescono a convivere, mischiando sfumature peculiari per un’esperienza interiore inedita. Ricci presenta la band, ringrazia Trasimeno Blues, lo staff, i tecnici: “Abbiamo dei fonici splendidi, grazie ragazzi, sia qui sul palco che in cima alla collina”. Introduce poi Lino Muoio e il brano successivo: “C’erano queste band di musicisti di blues che andavano in giro per il sud degli Stati Uniti e suonavano “for the tips”, per qualche spicciolo per sopravvivere. Avevano un repertorio bello che ci piace, come avrete capito: andare a ripescare, rispolverare. Proseguono con un brano del ’29.

Di questo gruppo amo la modulazione sonora che oscilla tra ambientazioni intime, delicate ed espansioni gonfie, mai arroganti, mai invadenti. È come se ci fosse uno spazio tra la musica e il pubblico in cui le declinazioni personali dell’ascoltatore possano prendere forma, come se ci si incontrasse a metà strada. In questo spazio “franco”, arriva un profondo senso di rispetto per il blues dei padri che apre alla possibilità di rendersi intimamente presenti. Ogni strumento ha una voce propria, parla, canta, incanta. Il mandolino di Lino Muoio e la tromba di Davide Richichi sono poesia. Gli Hoodoo Doctors & Kazoompet Machine, facendo propria l’identità delle “Jug Band” del primo blues, fatto anche di ragtime, skiffle, boogie-woogie, swing, raccontano storie di dolore e di riscatto che parlano all’anima e la svegliano. Storie che appartengono al passato e che sanno parlare all’umanità contemporanea con le sue nuove schiavitù e le sue nuove emarginazioni, con i suoi dolori di cui nessuno è immune. Credere che sia obsoleto suonare il primo blues è un luogo comune. “C’è poca cultura su questo genere musicale, eppure, quando capitano ad un concerto blues persone che non conoscono questo linguaggio va a finire che piace a tutti. È un linguaggio ritmico che ti fa comunque tenere il tempo, ti fa muovere. Ovviamente c’è da distinguere, perché il blues è un mondo vasto: Questo tipo di blues è quello povero, della strada, delle orchestrine che si arrangiavano con strumenti di fortuna. Certo, noi non abbiamo solo strumenti di fortuna, però ci siamo arrangiati pure noi. Suono da quando ero bambino, diventa tutto naturale e quando vedi che c’è un pubblico che gradisce, che apprezza, quella naturalezza emerge e suoni con più fantasia, più creatività”. Racconta Scifoni. In effetti la band, pur mantenendo intatta questa atmosfera si colloca nel presente e il pubblico si connette con le problematiche contemporanee, vivendo un’esperienza toccante. “La modernità ci ha tolto di dosso tanti dei problemi che avevano allora, eppure, mascherata sotto altre forme, la schiavitù esiste ancora oggi per cui se hai vissuto situazioni in cui hai difficolta col lavoro, con l’arrivare a fine mese, puoi immedesimarti in qualunque periodo storico abbia provato la difficoltà di portare la pagnotta a casa, perché noi siamo esseri viventi e viviamo di cibo, acqua, aria. Se ci togli i bisogni primari e i diritti fondamentali, ci hai svuotato, ci hai ucciso. Per cui la modernità rende paradossale il fatto che, per certi versi, siamo come potevano stare nel ‘600, nel ‘700 o agli inizi del ‘900. La storia che si ripete” commenta Andrea. Il minimalismo scenico e una certa compostezza che trovo geniali, messi in campo in un’epoca storica in cui pare che la musica non basti da sola, la band ha saputo creare questo spazio in cui la musica è la sola protagonista e compie i suoi miracoli. Dietro la maestria musicale, si cela una sensibilità sociale e politica: “Grazie per come ci avete trattato. Un festival che tratta cosi i musicisti merita tutto il rispetto del mondo, l’amore e la gioia. Caro Trasimeno Blues, bellissimo Trasimeno Blues, giungiamo al termine di questa serata e vi salutiamo con un brano che ci ricorda che dobbiamo sempre tenerci stretti i nostri diritti civili. Sembra una cosa ormai assodata ma in realtà non è così. I nostri diritti civili sono sacri e inviolabili. Ricordiamocelo sempre e lottiamo anche per quelli degli altri. In tutta allegria e con una musica scanzonata, il prossimo brano ci descrive la situazione di un ragazzo che si fa anni di galera perché è stato beccato a baciarsi con la sua ragazza sul patio di casa. Per cui ciò che sembra scontato oggi, all’epoca non lo era affatto. C’è stata gente che è morta per conquistare ciò che abbiamo oggi. Loro ce lo dicevano col sorriso sulle labbra”. Il brano è un’esplosione blues. Segue un bis e un finale a sorpresa in cui gli Hoodoo Doctors chiamano sul palco i “Ballad & Sons” che sono stati di apertura, con cui suonano l’ultimo brano del concerto in un’atmosfera di festa. Nel cuore restano sensazioni intense e la certezza che non abbiamo ascoltato solo dell’ottima musica, abbiamo attivato movimenti interiori in cui il cuore e la mente dialogano e danno origine a spunti di riflessione densi di profondità e di speranza, aperti a quell’oltre che troppo spesso pensiamo non ci sia.

(M.P.)

P.S. Grazie a Marina Sannipola, amica del cuore, per avermi suggerito il titolo di questo articolo.