CORAGGIO E GRATITUDINE NEL CONCERTO DEI MALICK & THE SMOOTH: GIOCA IN CASA LA FUTURA STELLA DELLA BLACK MUSIC

CORAGGIO E GRATITUDINE NEL CONCERTO DEI MALICK & THE SMOOTH: GIOCA IN CASA LA FUTURA STELLA DELLA BLACK MUSIC

I Malick & The Smooth li inseguo da una vita, da prima che fossero i Malick & The Smooth. Imprevisti di vario genere e natura mi hanno sempre impedito di assistere ad un loro concerto. Si vede che “l’Amor che move il sole e l’altre stelle” ha deciso di porgermi la primizia di questo Trio emergente, direttamente sul primo podio importante della loro carriera musicale, senza passare dal via. Sono, infatti, in mezzo al pubblico coinvolto e gaudente di piazza Mazzini a Castiglion del Lago quando i Malick & The Smooth salgono il primo gradino del loro riconoscimento nazionale: esibirsi sul palco di Trasimeno Blues, non più come anteprima, bensì in cartellone, durante la settimana del Festival. Seguo Malick Ndyaie dai suoi esordi quando, poco più che adolescente, sentiva il richiamo della musica come una propensione identitaria da cui non si può sfuggire. Della serie che se non sei musica, non sei. Eppure ha dovuto vincere tanti ostacoli, a partire dalla sua timidezza, dalla difficoltà di trovare musicisti affidabili con cui costruire un progetto musicale e dall’impeccabile educazione ricevuta dai genitori (mamma Paola di Roma e papà Omar, di Dakar), che gli ha richiesto di dare spazio, piuttosto che di prenderselo, in controtendenza con la frase desanctisiana “il mondo è di chi se lo piglia, e perciò è de’ furbi e degli sfacciati”. Malick non è sceso a compromessi per realizzare il suo sogno, ha lavorato tenacemente, è riuscito a trovare due compagni di viaggio con cui condividere la destinazione ambita: il chitarrista Federico Papaianni e il percussionista e batterista Alessio Lucaroni, musicisti dotati di altrettanto talento. Ed eccoli sul palco, con tutta la loro giovinezza, il loro stile, seppure ancora acerbo, già delineato e accattivante, la loro freschezza e, spero, la consapevolezza che è ora che si inizia a sudare, è ora che i Blues Brothers, con la loro frase “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”, diventano realistica ispirazione, perché è ora che bisogna lavorare duramente per trasformare i propri talenti nel proprio mestiere. Se lo meritano. Hanno capacità e accendono il feeling in chi li ascolta. Hanno dimostrato di avere tutte le carte per ammaliare ed entusiasmare e, quello che più conta, hanno uno stile musicale definito e originale, quello dei “bravi ragazzi” (anche questo in controtendenza), oltre ad avere una presenza scenica che, per quanto non ancora compiuta, promette bene. Sono tre, il numero perfetto, sono giovanissimi, sono umbri, sono belli e giocano in casa con il loro concerto. Infatti ce la mettono tutta, regalando al pubblico quasi due ore di bella musica, di emozioni e di coinvolgimento. Il loro repertorio, rigorosamente in chiave acustica, si compone di brani originali e di famose cover mutuate dalla Black Music, che spaziano dal blues, al soul, all’R&B, al jazz (in cui tutti ci riconosciamo), rivisitate dal loro gusto personale, con singolari arrangiamenti di chitarra e batteria attraverso cui il talento canoro di Malick può esplorare in modulazioni toccanti e appassionanti con un’apertura vocale capace di spaziare dalle note basse alle più alte, con un timbro particolare e caldo. A ridosso delle 18.30, alla fine della presentazione del libro “E quello sguardo blues” di Marco Di Grazia (previsto alle 17,30 nello spazio degli eventi dedicati alla letteratura blues a palazzo della Corgna), mi precipito lungo il corso Vittorio Emanuele, per raggiungere piazza Mazzini e non perdermi il concerto dall’inizio: sembro una gazzella sessantenne mentre vinco la paura di prendere una storta. Faccio appena in tempo a perdermi tra la folla che segue Gli Sbandati, lungo le strade del centro storico della città, mentre questi consegnano il fiume di gente ai piedi del palco di piazza Mazzini. La Street Band, infatti, conclude la sua prima incursione nella piazza, dove sono già pronti, sul palco, i Malick & The Smooth. Le persone si disperdono nel tentativo di trovare un posto per sedersi. La platea è quasi tutta occupata e non è facile trovare posto a sedere, così, ci si sparge sulla superficie della piazza o si trova posto tra i gradini della fontana, degli ingressi delle case e sembra che anche i portoni e le finestre stiano a godersi le note che l’ambiente intorno raccoglie. Per fortuna, la piazza è all’ombra, quasi a restituire ristoro come riconoscimento per aver sfidato il solleone. All’arrivo dei musicisti della Street Band, Malick li ringrazia, chiede al pubblico un applauso per loro e tutti contorcono il collo, indirizzando lo sguardo, ora verso il palco, ora verso la strada, oscillando tra Gli Sbandati e i Malick & The Smooth, per poi assestare gli occhi definitivamente verso il palco, mentre nell’aria vibrano le prime note del primo brano. Il passaggio di testimone avviene con “Stand By me”. La parte di pubblico che è in piedi è già nella danza e nel canto “Abbiamo cercato di tenere alto il ritmo attivato dalla Street Band”, svela Malick quando abbiamo modo di scambiare due parole. In effetti, il gruppo emergente, che il direttore artistico Gianluca di Maggio ha scelto per l’ultimo concerto in piazza, è cosciente di voler dare il massimo. “All’inizio si sentiva l’emozione, e anche il coraggio di volersi dare totalmente, di entrare nudi sulla scena. Questa cosa l’ho percepita, mi è arrivata forte” mi confida Paola. In effetti, qualche giorno prima, sentendomi col gruppo, ho ricordato loro il “mantra” di Susan Batson, quando nei suoi acting coaching, agitando con fermezza e provocazione il dito medio davanti alla faccia dell’interlocutore, per simboleggiare il primo passo verso l’affrancamento da ogni condizionamento, concludeva dicendo: “If you don’t do this, you don’t go anywhere”. Ed è profondamente vero, perché senza tale attitudine (che non ha niente a che vedere con l’egoismo o l’aggressività, quanto piuttosto col concedersi di mandare al diavolo la soggezione che abbiamo verso elementi presenti nelle personali dinamiche quotidiane) si sta nella vita a metà. Anche Herns Duplan, nei suoi stage, invitava sempre ad essere generosi, ad assumersi il totale rischio di qualunque espressione, fino in fondo, sia sulla scena che nella vita, altrimenti, si è un po’ “degli zombi” in una esistenza vana. Nessun artista è esente da questo coraggio ed è per me il più importante insegnamento che possiamo trarne. In fondo, siamo tutti chiamati a trasformare le nostre vite in opere d’arte ambulanti, a prescindere da chi siamo, come siamo, cosa sentiamo. Si tratta di sacralizzare il tempo e lo spazio in comunicazione con l’intero Universo. Si tratta di sentire che Dio in persona, si è scomodato per sedersi in platea e godersi la nostra esibizione. Come si fa a non sentirsi onorati e spinti ad avere il coraggio di osare? Se non altro per dimostrare che stiamo mettendo “a frutto i talenti ricevuti”. Mi piace pensare che l’intimidazione di Susan Batson abbia prodotto i suoi effetti e mi emoziono nel vedere come nella loro esibizione, si stiano mettendo in gioco davvero. “Da questo concerto ho imparato che posso fare sempre meglio. Come mai prima, mi sono sentito un artista a tutto tondo.  Sento che devo ancora migliorare e sento che è stata una bella esibizione.” Infatti Malick si è dato con generosità e con il cuore. Per me e per coloro che lo conoscono da prima, è palese quanto sia stato coraggioso da parte sua. E questo traguardo è stato condiviso da Alessio e Federico. Le sonorità degli strumenti avvolgono l’etere e creano quell’atmosfera adatta a valorizzare la voce raffinata del cantante che dà il meglio di sé nei brani originali, estremamente interessanti sia nella melodia, sia negli arrangiamenti, sia, infine, nei testi, molto profondi. I tre lasciano presagire un’escalation di successi. Proseguono con altri tre brani cover (“Location” di Khalid, “Ain’t no sunshine” di Bill Withers e “Liquor Store Blues” di Bruno Mars) prima di suonare il primo brano originale “Vieni qui”. La voce di Malick diventa più calda, più potente, più intima. E anche i musicisti sembrano amalgamati in questa evoluzione. Proseguono con altre due cover (“Sunny” di Boney M. e “Wordplay” di Jason Mraz) alternate ad altri due brani autografi (“Mi domando” e “Silenzio”) che conquistano il pubblico. “I pezzi scritti da Malick sono orecchiabili e la gente li apprezza”.  Alla fine del concerto, in tanti si avvicinano per restituire il proprio sentire alla band e per elargire complimenti. Un sentire che accomuna tutte le generazioni. Al concerto ci sono tutte le fasce d’età e famiglie intere. Molti ballano; vedere genitori e figli ballare insieme dà un senso di colore, così come i giovani e gli anziani, tutti uniti dalle note di questa promettente band il cui talento mette in secondo piano i momenti di incertezza tipici di chi ha una storia breve alle spalle. Il trio si è formato da pochi anni, poco prima del lock down che ha congelato ogni loro azione e il loro destino. Il loro esordio è avvenuto all’Onda Road, il mitico locale che Gianluca Di Maggio e Andrea Dini avevano aperto a Passignano sul Trasimeno proprio per dare all’inverno uno spazio di musica. Sono state poche le opportunità di esibirsi, eppure hanno già il loro embrione. I momenti critici sono puri, spontanei, connotati da una giovane, fresca inesperienza, che emoziona comunque. “Hanno avuto coraggio senza essere sfrontati, sono in una fase di crescita, nella consapevolezza che sono nati da poco. È bello che non si stiano montando la testa”, sono le parole accalorate di una mamma. Questo non impedisce al pubblico di divertirsi e coinvolgersi in un susseguirsi di brani uno più bello dell’altro: “Just the two of us” di Grover Washington Jr, “Georgia on my mind” di Rey Charles (e questa canzone la dedico alla mia amica Paola Galmozzi – figlia di Antonio Galmozzi, musicista blues della Milano degli anni Cinquanta – per le risate che abbiamo condiviso nel tempo del dolore), “Man’s world” di James Brown. Brani cantati e suonati con trasporto e feeling. Non mi ha convinto l’interpretazione di “Back to Black” di Amy Winehouse. È una di quelle autrici che richiedono grandissima sensibilità musicale e artistica. “Forse non è venuta come di solito. La mia voce non era al massimo, ho dovuto essere più controllato per poter arrivare a fine concerto” risponde Malick, quando gli chiedo la ragione di mettere nel repertorio un’autrice così particolare dal punto di vista delle esigenze interpretative. “La scelta di Amy Winehouse è stata quasi casuale. Di solito scegliamo i pezzi che ci piacciono. Questo brano l’ho proposto io perché è la canzone preferita della mia ragazza. Dopo la prima volta che l’abbiamo interpretato, ci siamo resi conto che era un brano da inserire nel repertorio” aggiunge Federico. E, di fronte alle scelte d’amore, alzo le mani. Il viaggio musicale continua con brani meravigliosi (“Lovely day” di Bill Withers, “Rolling in the deep” di Adele). Malick balla, passeggia sul palco, rompe il muro tra i ruoli musicali e con il pubblico creando un ponte di comunicazione con tutti: a volte privilegia il chitarrista, a volte il batterista, chiede applausi per loro e, per tutto il tempo, non dimentica il pubblico. Lo coinvolge nel tenere il ritmo con le mani (durante i brani che si prestano a farlo), lo invita a partecipare, improvvisa cori di botta e risposta per poi raccogliersi come se intorno non ci fosse più nessuno. In alcuni momenti interpretativi, infatti, chiude gli occhi e si apre senza riserve, donando sfumature vocali che parlano al cuore e che Alessio e Federico supportano con i loro strumenti, suonati con abilità nonostante la giovane età. “In Malick trovo l’energia, la forza, la capacità di creare sul momento. È dotato di un estro creativo che mi colpisce sempre molto. Mentre Alessio rappresenta la stabilità, la sicurezza. A pensarci bene, Alessio è un batterista, tiene il tempo che è il riferimento assoluto della musica e Malick canta e dev’essere in grado di coinvolgere, travolgere, quindi, in realtà, rispecchiano i loro ruoli musicali” racconta Federico. E l’architettura intorno sembra rappresentare questi pensieri: la torre dell’orologio, con le sue campane, domina la piazza come il tempo di un bravo batterista in una band; sotto l’orologio, una fessura, larga come un sentiero, apre ad uno scorcio sul lago che è un incanto e rappresenta l’abilità di un cantante creativo quando sa far viaggiare in luoghi altri; e poi la piazza (con le sue case, i suoi vicoli, le sue finestre) avvolge la vita di cui è testimone, come fa un chitarrista sensibile, quando percorre lo spazio e ne sottolinea il bello con la propria bellezza. Finalmente arriva il mio brano preferito: “Coscienza”, che per Malick è il simbolo del gruppo. Una canzone molto toccante che vibra nelle corde più profonde della mente e del cuore. Infine la band si abbandona ad una chiusura ad effetto con brani cult (da Steve Wonder, a Blackstreet, a Bill Withers, a Marvin Gaye, a Rey Charles con la mitica “Hit the road Jack”). Alla fine del concerto, in un’atmosfera piena di energia, Malick invita tutti ad alzarsi e i pochi rimasti seduti si sentono liberati, perché è giunto il tempo di farlo, dopo che le gambe, la testa, le mani, le spalle, come se fossero elementi staccati ed autonomi dal resto del corpo, già si lasciano suggestionare dalla musica infilandosi in movimenti irrefrenabili. Appena finito il concerto si crea un capannello di complimenti a ridosso del palco. “Really cool” grida la voce di un ragazzino del nord Europa, lanciandosi tra le braccia del cantante. E il bis, con Superstition, rende eterno il legame ancestrale con la musica, sorgente vitale di ogni dimensione umana, in un ballare collettivo in cui sentirsi comunità. I Malick & The Smooth, attraverso la voce elegante e commovente di Malick Ndyaie, ringraziano tutti, senza dimenticare nessuno, dai tecnici, agli organizzatori, alle istituzioni, ai documentaristi, ai videomaker, fotografi, addetti ai lavori, addirittura anche noi blogger e, ovviamente, il direttore Gianluca Di Maggio e il pubblico, le due autorità di questa settimana magica. “E’ come se in quei ringraziamenti, ci fosse la reale intenzione di non dimenticare nessuno, per presentare a Dio il ringraziamento più grande”, quello di aver ricevuto un dono e l’opportunità di farlo valere, perché Dio, le pentole, le fa con i coperchi.

(M.P.)

Una risposta a “CORAGGIO E GRATITUDINE NEL CONCERTO DEI MALICK & THE SMOOTH: GIOCA IN CASA LA FUTURA STELLA DELLA BLACK MUSIC”

  1. Concerto entusiasmante. Momenti d’incanto puro e ondate dai ritmi trascinanti. Malick e i suoi compagni di viaggio hanno un carattere affascinante e riconoscibile. Tutto ciò raccontato in questo articolo coi colori di un dipinto, dalla penna di MP, a cui invio i miei più sinceri complimenti.

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