QUELLA ROBA BLUE CHE TI DICE LA VERITA’: IL CONCERTO DEI BLUE STUFF A PANICALE PER LA SECONDA SERATA DEL FESTIVAL BLUES

QUELLA ROBA BLUE CHE TI DICE LA VERITA’: IL CONCERTO DEI BLUE STUFF A PANICALE PER LA SECONDA SERATA DEL FESTIVAL BLUES

Nella scelta del nome c’è già un senso ironico e provocatorio come ad indicare che la band si sia scrollata di dosso ogni ricatto competitivo, ogni pretesa valoriale, ogni interferenza che possa condizionare il loro modo di fare musica, impedendole di essere quello che è: il blues dei Blue Stuff che racconta la verità di quello che si vive.

Arrivo a Panicale con una stanchezza addosso che quasi mi chiedo come farò a non addormentarmi in macchina al ritorno: il caldo e il sonno arretrato mi hanno steso in questi ultimi giorni e consegno questi miei stati d’animo alla mia mente per costruire alcune domande, mentre il sound delle prove, con le sue note toccanti, mi conquista per un senso di centratura raro da trovare. La musica dei Blue Stuff oltrepassa il confine di circostanza e sembra indirizzarsi direttamente al cuore senza nessuna mediazione. La voce di Mario Insenga (voce e batteria) è carismatica quanto la sua personalità e il suo modo di colpire i diversi componenti della batteria. È accompagnato da musicisti strepitosi: Sandro Vernacchia (chitarra, cori), Emilio Quaglieri (chitarra, cori), Eros Capoccitti (basso). La sensazione è che non abbiano bisogno di artifici perché la loro musica è sufficiente di per sé ad affermarsi, a coinvolgere con il suo groove che acchiappa; non ti chiede il permesso, arriva e basta ed è inevitabile spalancarle le porte del cuore.

A cena, approfitto per strappare un’intervista informale alla band e chiedo al suo leader che rapporto ha con la fatica. “Effettivamente è molto faticata la cosa, soprattutto se si suona in contesti di piazza, in cui il pubblico è eterogeneo, a differenza dei concerti in teatro che richiedono un biglietto consistente e a cui accede un pubblico consapevole del suo desiderio di ascoltare quel determinato gruppo. Noi non ci fermiamo, andiamo avanti, con il nostro furgone che carchiamo e scarichiamo noi, guidiamo noi, prima di suonare. La fatica c’è tutta ed è, in parte, compensata dal piacere, intrinseco, in quanto facciamo qualcosa che ci piace: suonare il blues, il nostro blues. L’80% dei brani che suoniamo sono scritti da me o da collaborazioni (tipo quella con Daniele Sepe, Joe Sarnataro). Oltre alla fatica fisica, non è da trascurare la fatica mentale che deriva dall’esigenza di avere un repertorio aggiornato che trae ispirazione dai fatti quotidiani. Il fatto di oggi può rappresentare un argomento blues. Cosa è accaduto? Il governo si riconosce i vitalizi, prima o poi ci scrivi di questo. Ed è affaticante perché non viene così. Questa capacità artistica è un privilegio di pochi: Fabrizio De André, Lucio Dalla, Francesco Guccini e pochissimi altri, poeti per antonomasia, il resto sono canzoni, con tutto il rispetto per la musica leggera o “leggerissima”. Ti faccio un esempio. Quando scrivo un pezzo, per quanto banale, mi ritrovo un mazzo di fogli da cui ricavo quattro o cinque strofe. E questo è fatica. Sapessi quante volte, se avessi saputo fare altro, avrei rinunciato a questa fatica, soprattutto a dovermi rapportare con un certo tipo di personaggi. Così come, per qualcuno che deve campare, un impiego alle poste va tenuto stretto, anche se non è il massimo a cui possa aspirare nella vita e, anche lì, non c’è stanchezza che tenga”.

Il direttore organizzativo del festival, Andrea Dini, apre la serata dando il benvenuto al pubblico giunto da ogni dove per il secondo appuntamento della ventottesima edizione di Trasimeno Blues che si spera possa “continuare per molti anni a perpetrare questo genere musicale”. Dini ricorda gli appuntamenti delle giornate successive del Festival, e introduce i Blue Stuff: “Questa sera una band che fa parte della storia del blues italiano e, soprattutto, partenopeo. Sono del sud e si esprimono con una simpatia e una gioia particolari. Mi chiedo spesso se sono più simpatici o più bravi”. Dopo l’applauso iniziale Mario Insenga, introduce il primo brano, con la sua voce profonda e un tono teatrale: “parla di una donna, che tu hai sopportato per tutta la vita. Immaginate che cosa hai dovuto subire. Poi, a un certo punto, lui ha il coraggio di dirle, “Bella, uno di questi giorni, per te, il sole non brillerà più”. Scherza poi con i musicisti e il pubblico, lo interroga sugli autori dei brani in scaletta, le epoche, i fatti, e il concerto diventa tante storie nella storia, all’insegna del blues, quello che non ha pretese se non di trasmettere la verità di ciò che si è.

La verità ti connette col carisma e arriva. Son House, anche quando suonava in contesti di pubblico distratto, appena iniziava a cantare con quella voce del Mississippi, si zittivano tutti. Probabilmente un altro non avrebbe sortito lo stesso effetto. Ricordo un aneddoto di quando lavoravo all’Ansaldo in cui venne offerto un viaggio promozionale Roma-Chicago. Quando mi venne proposto ci andai con il direttore. Lui per farsi il viaggio e io per il blues. Misi la condizione che la sera saremmo andati per locali blues. Ogni giorno consultavamo “The Reader”, il giornale in cui venivano riportati gli eventi di Chicago e dintorni, per reperire le informazioni sui concerti. Dopo le prime due sere, capitammo in un locale del West Side a sentire Lonnie Brooks che aveva un approccio esibizionista. Ad un certo punto, in perfetto napoletano, si sente uno che dal fondo del tavolo dice testuali parole: “Né, ma stasera nun se sona”. Questo per dire che una persona digiuna di blues, dopo due sere, aveva capito che quella performance non aveva niente a che fare con il blues. La verità arriva, così come l’ostentazione”.  Durante il concerto dei Blue Stuff, in questa atmosfera blues, la voce di Mario non teme obiezioni, si mette al servizio della musica, consapevole di essere uno strumento interpretativo attraverso cui la verità del blues, come note e come testo, prende forma. Lo stile musicale mette insieme il grigio degli ambienti fumosi americani con il giallo del sole partenopeo per un effetto tutto particolare, molto penetrante e coinvolgente. “Mario ha un modo di suonare la cassa che è la differenza che fa la differenza. Ho suonato con tanta gente, ma la cassa ti regala la possibilità di essere essenziale nella musica, di fare poche note e ogni nota si appoggia bene. Se suoni con un batterista che non ha quel groove, la tua performance ha meno possibilità”. Insenga è consapevole di ogni aspetto concertuale, non gli sfugge niente e, forse, proprio per questo, si può permettere di essere se stesso totalmente, con una maturità conquistata del proprio sé, mai svenduto. I Blue Stuff non cadono nell’ostentazione di gettare fumo negli occhi, fanno viaggiare e catturano creando un’osmosi emotiva con il pubblico. Suonano alcune cover americane e il loro blues sempre e comunque. “Per raccontare le storie attuali bisogna usare varie lingue, la maggior parte dei brani che sentirai vengono da storie vissute, veramente accadute” e vanno raccontate nella lingua del contesto a cui si riferiscono, da qui la scelta di cantare in napoletano e in italiano.

A cena parliamo di come restituire alle emozioni, così inflazionate oggi, quella dignità che sembra stiano perdendo. “Noi siamo un gruppo di blues, emozioni a valanga. Mi soffermerei soltanto sul fatto che arrivino ancora delle giuste “good vibrations” di un tempo (come cantavano i Beach Boys), perché è la risposta del pubblico che ti fa andare veramente avanti. Noi non abbiamo fatto quel salto di qualità per cui stabiliamo noi dove suonare, come suonare e quando suonare: ci chiamano e, nei limiti di una certa decenza, andiamo. Sono le emozioni che ci portano avanti. Quando suoniamo si crea uno scambio. Non si tratta di mostrare quanto uno sia bravo. Nel blues investi quello che hai, quello che sei.” Sono sempre stata convinta che l’ostentazione o il dover dimostrare siano trappole in agguato in ogni contesto relazionale e spingono all’artificio, disconnettono dalla propria identità profonda e impediscono quell’apertura che ti fa assumere la responsabilità di quello che sei. “Si può cadere in questo errore. Il blues è ‘n’ ata cosa. Nel blues conta la voce, il canto, la storia che stai raccontando. Lo hanno creato cosi e cosi ce l’hanno insegnato Charley Patton, Robert Johnson, Bukka White, Skip James o un qualunque nome della prima generazione di blues. Accussi era. Se senti i dischi del blues arcaico, pre-bellico, del Delta, non ci sono assoli. Robert Johnson ha fatto un chorus di solo, su un’alternate take in uno dei suoi brani: “Kind Hearted Woman Blues”. Uno scrittore di saggi blues, raccontava che se in un locale si sta suonando blues ed entrano un bianco e un nero (è bene precisare che ci riferiamo a quell’epoca) il nero si applica a sentire la storia, la voce e quello giudica, il bianco, guarda la chitarra e la bravura del musicista. Questa è stata l’involuzione del blues in cui si trovano realtà di tecnicismo che non serve a niente, in cui l’esibizione diventa esibizionismo e a me non dà niente. Voglio sentire che cosa sei in grado di apportare. Quando suoni il blues, devi far emergere la verità di quello che sei, prima ancora di suonare quello che senti”. Mario Insenga non è solo un artista di blues di altissimo livello e di grande originalità, è anche un pozzo di conoscenza in merito al blues ed è una profonda emozione ascoltare dalla sua viva voce, aneddoti, stralci di libri, di storie, le sue considerazioni, le descrizioni sui suoi processi creativi, i cliché da cui si è affrancato da sempre e sentire quanto la sua forza sia quella di essersi messo in gioco per suonare quello che è. Sandro, uno dei chitarristi, precisa che l’introduzione degli assoli nel blues è stata la naturale conseguenza di un’esigenza nata nella musica swing, in cui “un brano doveva essere lungo per permettere alla gente di poter ballare e gli assoli avevano inizialmente questo scopo. E piacciono. Spezzerei una lancia in favore di quelli che suonano il blues adesso, gli stessi neri si sono ammorbiditi. Certo, bisogna contribuire in qualche modo. Il blues nasce dalla sofferenza di cui nessuno di noi è immune”. Mario sottolinea che il blues nasce anche dall’amore. “Comunque nasce da un animo tormentato e anche l’amore destabilizza, ti fa uscire dalla zona di comfort” e ci vuole coraggio per mettersi a nudo nelle diverse sfumature della vita quotidiana, personale o collettiva. Apprezzo l’inesorabile sincerità di Mario Insega e l’empatia solidale di Sandro Vernacchia rispetto a chi fa blues. Sandro cita Mick Taylor (chitarrista dei Rolling Stone fino al ’74) come esempio da studiare, sottolineando che il suo modo di suonare è determinante ed è inglese ed è bianco e non è l’unico. “Sarà che nella mia vita ho due amori irrinunciabili: i miei figli e il blues. Se me li levi, muoio”.

La conversazione spazia fino a Beaudelaire e alla differenza tra lo spleen e il blues. “Il decadentismo di Beaudelaire è un istinto a lasciarsi andare, mentre il blues è una voglia innata di vivere”, puntualizza Eros “il blues nasce in un periodo storico particolare dove cera un’urgenza di esorcizzare la condizione in cui si viveva. Pensare di riproporlo adesso è una difficoltà enorme”, prosegue Sandro, “So come la pensa Mario, cioè di portare qualcosa di nuovo perché il nostro contesto è nuovo. È chiaro che il linguaggio va conosciuto e studiato, tuttavia, effettivamente, non è così scontato”. Durante il concerto Mario contestualizza: “Il secondo brano sicuramente lo conoscete. Era il 1969 e ci fu Woodstock, un avvenimento che ci illuse che la musica potesse cambiare il mondo, anche se, a ben guardare, è stato il mondo a cambiare la musica. Siamo rimasti dei fottuti romantici. Si tratta di “Going up the country” e questo vi ricorderà i Canned Heat, quelli di “on the road again”. Mario Insenga parla spesso in napoletano. Il brano, suonato con passione dalla band, oltre ad immergerci in un’atmosfera blues ci accarezza con un giro armonico in cui sembra che la chitarra giochi ad essere uno strumento a fiato. La voce è blues, come gli strumenti, come il modo di suonarli, come l’interpretazione che mettono in campo, con una struttura particolare che prevede chiusure improvvise a cui seguono riprese musicali che sorprendono, enfatizzano il groove, amplificano le emozioni. Negli anni si sono orientati a comporre brani blues in italiano e in napoletano, una sfida che hanno assolutamente vinto. E Mario, introducendo il primo brano in napoletano, ironizza, raccontando di come questa scelta possa essere stata coraggiosa, esponendo al rischio di essere “schifati”, per usare un suo termine. Ringrazia Trasimeno Blues per averli invitati a suonare, sottolineando come la direzione artistica, in tutti questi anni di festival, abbia puntato sempre alla sostanza e fa riflettere sugli stereotipi, anche musicali oltre che di comportamento. “Sei musicista e non bevi birra?”. “No, non bevo”. E annuncia che i prossimi brani saranno in italiano e napoletano. Scherza sottolineando come il napoletano sia la lingua più parlata al mondo, dopo l’inglese, e che pure i cinesi lo capiscono, lo parlano, si arrangiano: “Vi proponiamo qualcuno dei brani autoctoni, tra cui il prossimo che è uno dei più significativi. Si intitola “Siamo Fuori”, siamo fuori dal governo, ma non da questo governo, da tutti i governi, da qualsivoglia governo. Siamo dei fottuti romantici di due, tre generazioni fa, quando un’idea politica era un’idea politica. Siamo fuori dal moderno e, sicuramente, non ci piace la musica trap. E siamo fuori dalla pensione. Il musicista non è una categoria che esiste in Italia. Se tu dici che fai il musicista, la gente ti risponde “ho capito ma che fatica fai?”. Siamo fuori, non siamo previsti, non abbiamo diritto alla pensione, nui non faticamm”. Un brano denuncia, incalzante e decisamente blues, come tutti i loro brani, in cui una certa drammaticità nel testo, viene raccontata con uno stile musicale che comunica leggerezza, con ritmi incalzanti e un certo brio. Si pensi, uno fra tutti, a “L’acqua è poca”. O il brano che “racconta di una donna di cui tutti ti dicono non faccia per te e tu ci stai lo stesso”, o quello che racconta la storia di John Dillinger (1903-1934) e che è uno dei miei brani preferiti. “Era un rapinatore di banche, e se oggi nascesse un nuovo John Dillinger, io, nonostante l’età, lo seguirei, perché era un benemerito. È stato ucciso dall’FBI che aveva creato un ufficio apposito per dargli la caccia, tradito da una donna, all’uscita di un cinematografo. Era un’epoca in cui le banche non avevano computer, quindi i debiti erano annotati a mano, John Dillinger rubava per fatti suoi, però appicciava tutti i libri contabili”. Una storia vera, emozionante come il blues dei Blue Stuff. Mario Insenga ironizza sugli insegnamenti della storia e su come bisognerebbe togliere le statue di Garibaldi e sostituirle con quelle di John Dillinger e che, quando ha scoperto questa storia ha deciso di scriverci un pezzo. Soprattutto, si è messo un poster di John Dillinger in camera. “A John Dillinger, eroe del blues”. Il brano è bellissimo, nel testo e nel sound.  Seguono cover e ancora brani originali, battute, racconti, curiosità, per un concerto emozionante e divertente, con momenti intensi e commoventi con le chitarre di Sandro ed Emilio e il basso di Eros che ne enfatizzano le sfumature tenute insieme dalla batteria che sembra cosciente di avere un appuntamento con il ritmo, con la pulsazione e non si fa attendere, né attende. Tutto si compie lì, in quell’appuntamento. Si succedono brani evocativi storici, come “Crow Jane Alley”, di Willy De Ville, “Blues Got the World By the Balls”, “Let’s work together” dei Canned Heat. “Come on people, walk hand in hand, camminiamo mano nella mano, facciamo di questo mondo un posto migliore dove stare. Sì, eravamo proprio fottuti romantici. Quella è l’unica definizione che abbia senso”. Il concerto ha un’energia propria e il pubblico è totalmente coinvolto. Seguono brani autoctoni, come “Afragola”, una storia di emigrazione, intrisa di nostalgia, “Sono stanco”, una condizione che risuona in tanti cuori, “Sotto viale Augusto ce ci sta?”. Storie vere, storie di oggi, storie blues che la musica dei Blue Stuff racconta con uno spirito di verità, tra un giro di blues, una certa allegria napoletana e una capacità di suonare consolidata e peculiare. Davvero questo concerto è un dialogo musicale che lascia il segno. Un blues brioso, sentito, vero che racconta di storie vere che arrivano a stimolare la coscienza, parlando a noi, contemporanei, come a dire, che il blues oggi, come ieri, forse, dietro quelle sonorità inconfondibili, vuole inchiodare le coscienze e denunciare le responsabilità sociali rispetto all’emarginazione, ai soprusi, alle ingiustizie. Sul ritornello/domanda di “Viale Augusto”, Mario attiva un coinvolgimento del pubblico in cori: la domanda di Napoli diventa la domanda di tutti, del pubblico di Trasimeno Blues, in un coro collettivo che risuona con ironia nei meandri del cuore a scuoterlo per chiedergli: “E tu?”

Durante il concerto, Mario Insago, per introdurre uno degli ultimi brani, riprende la risposta che ha dato a cena alla domanda di Anna (la mascotte del festival che rivedo in questa occasione, stupenda e cresciutissima) che ha la curiosità di sapere come mai sia diventato musicista. “Era il 1965 e iniziò alla radio una trasmissione che si chiamava Bandiera gialla, condotta da Gianni Boncompagni e Renzo Arbore che aprì un mondo. E io decisi che era la musica che volevo suonare. Eravamo abituati ad ascoltare il festival di San Remo, con tutto il rispetto, però scoprimmo la musica di oltreoceano. Nacquero i complessi, i gruppi beat. Ogni appuntamento del sabato prevedeva che i ragazzi presenti in studio eleggessero il disco giallo della settimana, quello che vinceva la puntata. Il primo disco giallo è questo che vi presentiamo di cui ho ancora il 45 giri. Si chiama “Woolly Bully” di un gruppo di folli che si chiamavano Sam The Sham and Pharaohs”. L’energia musicale cresce e il blues conquista il parco Santa Margherita. Il pubblico viene interpellato per il bis e opta per “E’ asciuto pazzo ‘o padrone” dedicata a Diego Armando Maradona. Il pubblico si fa coinvolgere, alcuni azzardano a ballare sotto il palco, tra cui una mamma con un bambino in spalla, improvvisando coreografie spontanee che emozionano. Altri si uniscono alle danze e parte la festa. Il chitarrista lascia la sua postazione e balla anche lui con una ragazza appassionata e leggera, con il suo vestito svolazzante. Un happening si materializza sotto i nostri occhi. Mentre l’energia cresce e pervade lo spazio interiore come lo spazio intorno. I musicisti riprendono le loro postazioni per l’exploit finale; sulle ultime note blues della serata, Mario ripresenta i musicisti. “Sandro Vernacchia alla chitarra, detto il biondo, Eros Capoccitti al basso elettrico, Emilio Quaglieri alla chitarra” e ringrazia il pubblico per esserci stato fino in fondo, per essersi divertito e aver cantato e ballato insieme.

In uscita mi imbatto in Francesca ballerina con Milo, il suo bambino sulle spalle. Scambiamo due chiacchiere e mi racconta che il figlio si era addormentato poco prima di entrare al concerto, sul suo passeggino e si è svegliato durante l’ultimo brano. Con voce inquisitoria, rivolgendosi alla mamma le dice. “Ah ma’, ma che mi hai portato a concerto finito?”. Ridiamo e pensiamo che, con questa frase, Milo sia stato veramente blues. Francesca vive ad Orvieto e porta sempre con sé il suo bambino ai concerti. Entrambi amano la musica e condividono la gioia di emozionarsi insieme. E intanto, offre a suo figlio la musica blues che è uno strumento privilegiato di salvezza quando siamo sopraffatti dagli eventi o dalle emozioni. E semmai non trovassimo soluzione, almeno ci sentiremmo capiti.

(M.P.)