QUELL’ARIA DI FESTA NEL PROGETTO BIG MAMA LEGACY: INTERVISTA A GEGE’ TELESFORO IN PROGRAMMA PER LA SERATA FINALE DI TRASIMENO BLUES 2023

QUELL’ARIA DI FESTA NEL PROGETTO BIG MAMA LEGACY: INTERVISTA A GEGE’ TELESFORO IN PROGRAMMA PER LA SERATA FINALE DI TRASIMENO BLUES 2023

Gegè Telesforo ama condividere e lo fa con la musica e nella musica ogni volta che ne ha la possibilità, sia con il pubblico che con i musicisti. Prova una felicità tutta sua quando può sperimentarsi in contesti con nuovi musicisti per quella duplice sensazione, da una parte di ritrovarsi nelle corde comuni, dall’altra di contattare peculiarità stilistiche e identitarie inedite dell’altro. Sarà che a Foggia, ubicata nel cuore della Capitanata, l’aria del mare, come quella degli Appennini arriva e si mischia nella pianura, enfatizzandone gli umori o i sogni, sarà che a casa l’arte, la bellezza, la musica, sono sempre stati un valore, sarà che il liceo Marconi, (che Gegè ha frequentato) in quegli anni vivesse la sua stagione migliore (e me lo immagino nei banchi di scuola della sezione C, a parlare di musica tra una funzione matematica, una versione di latino, un pensiero filosofico), fatto sta che la gioia di suonare e di stare insieme, l’entusiasmo per ogni forma creativa musicale e la voglia di esplorare nuovi lidi e, soprattutto nuovi talenti, lo hanno portato ad essere un musicista poliedrico capace di intercettare chiunque faccia della buona musica per percorrere insieme un pezzo di strada. Ed è quello che è successo in questo ultimo periodo con il progetto Big Mama Legacy. Gegè e un gruppo di musicisti giovanissimi, con tanta voglia di misurarsi e di esprimersi, hanno realizzato un repertorio musicale che parte dal blues e torna al blues attraversando diversi stili musicali affini con l’idea di connettersi con la dimensione gioiosa della musica. È rimasto semplice e accogliente Gegè, come tutti coloro che hanno nel loro back ground un’educazione impeccabile impartita dalla famiglia e una certa cultura del sud. E questo tipo di educazione, in alcuni contesti del sud, non è attribuibile ai soli genitori, è un’eredità culturale che si tramanda di generazione in generazione e che permette di rapportarsi in qualunque contesto, perché si basa sull’accoglienza, sull’eleganza e sull’apertura. La musica di Gegè non prescinde da questa connotazione. Per quanto il blues racconti storie spesso tristi, è come se Gegè e la sua band si connettessero con il substrato che sta oltre i rumori di fondo del blues e che tradisce un profondissimo desiderio di gioia. Anzi, è come se per lui il blues fosse un territorio a cui consegnare pezzi di vita reale, spesso difficili, affinché si crei spazio in cui le dimensioni del sogno e della festosità possano emergere.

Lo intercetto per l’intervista appena rientrato in Tuscia dopo un concerto a Verona e, nonostante fosse provato dal forte caldo e dall’urgenza di farsi una doccia, si rende disponibile per alcune domande. L’avevo contattato attraverso i canali ufficiali di management senza risultati, così ho chiesto a David Treggiari, un amico comune, musicista anche lui, di darmi una mano per avere il suo contatto. Gli scrivo un messaggio whatsapp e ci accordiamo per una data. Mi risponde con garbo e accoglienza sulla data e sull’orario: il 19 pomeriggio alle quattro, ora in cui dovrebbe essere a casa, di rientro dal concerto di Verona. Butto giù qualche appunto sulle domande e, come faccio sempre prima di un’intervista, oltre a guardarmi di tutto di più in internet in merito, cerco un luogo interiore in cui sedermi e aspettare, in cui la voce sottile dell’ispirazione possa parlare. E per Gegè, la trovo proprio nelle radici geografiche-culturali comuni e nell’atmosfera liceale condivisa con mio fratello e mia sorella, studenti del Marconi anche loro negli stessi anni, hanno transitato negli stessi corridoi, sono stati istruiti dagli stessi insegnanti, hanno sperimentato lo stesso vissuto scolastico e sono stati chiamati allo status di bravi ragazzi, nonostante il fuoco sacro della passione bruciasse nei loro cuori, ognuno con sogni diversi. I suoi compagni di liceo ricordano Gegè come uno che aveva la musica nel cuore. Allora come adesso. Ed è con queste immagini che formulo la prima domanda, convinta che la musica, come spesso succede, lo aspettasse prima che lui nascesse:

D. Cosa c’è oggi in te, musicista di successo, del giovanissimo Gegè che faceva musica e sognava?

R. È iniziata prestissimo la mia storia d’amore con la musica. A casa, a Foggia, con papà, architetto, amante di jazz, di arte, di bellezza. In quella casa, ho ascoltato tutto il vinile presente e ho anche strimpellato tutti gli strumenti che papà comprava e custodiva nel salotto di casa, sempre pronti ad essere usati. Poi, all’Università, mi sono trasferito a Roma e ho perso tempo con l’Università. Mi ero iscritto ad Economia e Commercio, per scoprire che non avevo alcuna intenzione di diventare dottore commercialista, laurearmi e occuparmi di numeri.  Così sono partito per il militare nell’arma dei carabinieri e quando sono tornato, ho deciso di avventurarmi sul sentiero di ciò che mi appassiona veramente e, con spirito di avventura, appunto, ho iniziato a lavorare nel mondo della musica. Non credo di essere un musicista di successo. Semplicemente ti capitano delle opportunità che possono renderti visibile al grande pubblico. Quando, improvvisamente, da musicista, ti ritrovi in televisione a lavorare in uno dei programmi di musica più importanti della RAI, il tuo volto diventa familiare al grande pubblico televisivo. Parlo di familiarità e non di popolarità in quanto, avendo seguito un tipo di percorso musicale e artistico, legato a certe sonorità, a certi generi musicali, il mio successo è rimasto di nicchia, strettamente legato al blues, al jazz, all’R&B. Oggi, rispetto a quando ero ragazzo, trovo dentro la stessa passione, la stessa gioia, lo stesso entusiasmo di allora, con un po’ di esperienza in più, di conoscenza tecnica, naturalmente. La voglia di suonare, il fuoco vivo che la musica mi accende, il profondo senso di divertimento che provo da sempre quando suono, non è cambiato, anzi, si è alimentato nel tempo. Se un tempo, da ragazzino, le persone dicevano: “Ah, quello è Gegè, il figlio dell’architetto Telesforo, quello malato di musica”, posso confermare che potrebbero dire la stessa cosa oggi. La “malattia” è rimasta, anche se, come è giusto che sia, la musica si è trasformata e mi ha trasformato. Abbiamo percorso insieme il nostro viaggio evolutivo e, a dirla tutta, la musica si è anche trasformata nella migliore terapia possibile.

Immagino l’atmosfera a casa Telesforo, piena di musicisti, spesso anche Renzo Arbore, e penso che sia il posto migliore in cui far crescere un bambino. E penso alla mamma di Gegè, e a come si sia barcamenata in tutto quel caos, per fare in modo che tutto fosse fluido, non solo il fare musica (che si rende fluido di per sé), quanto il garantire fluidità nel resto della vita quotidiana e nel fare in modo che al figlio non mancasse una buona educazione, una buona istruzione e dei buoni valori. Rifletto su quanti bambini siano lontani da questo tipo di opportunità e mi tornano in mente alcune riflessioni in merito alla differenza che fa la differenza, a parità di talento, tra chi ce la fa e chi non ce la fa a trasformare le proprie passioni in reddito.

D. Samantha Cristoforetti sostiene che è fondamentale l’allineamento tra i diversi elementi della propria vita per realizzare un sogno, a partire dal trovarsi al posto giusto, al momento giusto. Quando questo avviene, bisogna essere pronti, per cui è importante investire totalmente e pienamente se stessi in un obiettivo. Ti ritrovi in questo pensiero? Oppure può succedere anche che un’opportunità possa far nascere quella passione e quell’impegno totale e che, quindi, si possa recuperare in corsa?

R. A me è andata che sono riuscito a trasformare quello che era un gioco adolescenziale in un lavoro. Non avrei potuto fare diversamente. Da bambino mi divertivo a strimpellare strumenti, a suonare sui dischi di papà; certo mi capitava di giocare con i soldatini o con le macchinine come tutti i bambini della mia età e della mia epoca, anche se mi succedeva di rado, perché il mio gioco preferito era di fare il musicista di jazz. Amavo rifugiarmi nel mio mondo immaginario in cui facevo finta di suonare con i grandi musicisti del blues, del jazz. Mi proiettavo nel futuro come se quel gioco potesse avere la forza di plasmarmi. Certamente la Cristoforetti, da astronauta, sa bene che la congiunzione astrale è importante. Trovarsi nel posto giusto al momento giusto è fondamentale. Ti dirò, con il senno del poi, credo anche di aver perso molti treni importanti, dal punto di vista delle opportunità di successo, perché ho seguito l’istinto. Tra questi treni persi c’è sicuramente la televisione che sappiamo essere il mezzo più potente per conseguire popolarità. Si trattava di trasmissioni importanti, in prima serata. Dopo il periodo di “D.O.C.”, mi proposero di lavorare per produzioni televisive importanti, in prima serata su Rai Uno e, invece, il mio cuore già batteva oltre oceano. Ero già scappato, mi ero trasferito negli Stati Uniti dove ho continuato a fare la vita del musicista, pur avendo ormai ottenuto un successo televisivo che si sarebbe prospettato in crescita. Ho sempre creduto e ho sempre pensato che, alla fine, devi fare la cosa che ti piace di più, costi quel che costi, quindi non ho mai puntato ai numeri, a diventare ricco e a ottenere successi discografici da artista che si piazza primo o secondo in classifica. Ho puntato sempre ed esclusivamente a fare le cose che mi piacessero, a frequentare i musicisti che erano, in qualche modo, vicini ai miei gusti, al mio mondo musicale e non ho rimpianti. Oggi, a 60 anni, mi sento abbastanza soddisfatto delle scelte che ho fatto, di quello che ho realizzato con la musica e anche di quel senso di precarietà, molto blues, che connota le problematiche comuni a tutti i musicisti che hanno fatto il mio percorso: le bollette, il mutuo e tutto il resto. In ogni caso, sono riuscito a mettere su famiglia, ad avere una figlia che amo molto, a separarmi da mia moglie e ad avere oggi una bellissima compagna. Soprattutto, sono riuscito a vivere la musica in maniera assolutamente genuina e naturale. E questo dà energia: quando salgo sul palcoscenico, dimentico di avere 60 anni, ritorno il ragazzino appassionato di musica con gli occhi che sprizzano gioia per quello che sta facendo e mi auguro di poter continuare così fino all’ultimo.

Gegè parla con solerzia e nelle pause tra una narrazione e l’altra, tra alcune parole, mi arriva un mondo emotivo profondo. Prima di tutto il rispetto verso il pubblico, a cui bisogna consentire di affacciarsi in territori più intimi, perché il resto, ciò che è in superficie, lo vede da sé. Anche se, è pur vero che, in un’esibizione artistica, è proprio quell’intimità, quell’insondabile che emerge in tutta la sua verità. Poi, mi faccio la fantasia che, semmai ci fosse un pizzico di rimpianto (che in qualche modo ho colto), sarebbe quello di saperne l’uso che avrebbe fatto di quel successo, sempre e comunque al servizio della musica e di chi la ama. Chi ha accesso ad alti livelli di successo, può costituire un impulso vitalizzante e orientare la cultura. Come hanno fatto Arbore e Buoncompagni con la trasmissione Bandiera Gialla che ha portato una certa musica d’oltre oceano al grande pubblico. Si sente che per Gegè la musica è come l’aria che respiriamo, non se ne può fare a meno, la si vive e basta esulando da elucubrazioni mentali di sorta. È istintivo ed è su questo istinto che ha contato per mettere in piedi questo suo ultimo progetto musicale. In un certo senso, sembra che il tempo nella vita di Gegè, abbia unità di misura diverse da tutti gli altri, facendo emergere una prospettiva filosofica tra il vivere e il suonare.

D. Herns Duplan, fondatore dell’Expression Primitive, ha sempre sostenuto che lo spazio e il tempo siano le variabili che ci dicono che siamo vivi e con cui ci dobbiamo rapportare. Che esiste una differenza tra essere nella vita o lasciare che ci scorra a lato. E che questa differenza dipende dal rapporto che abbiamo con il tempo e con lo spazio. Come si costruisce la coscienza del tempo e dello spazio per un musicista?

R. Certamente spazio e tempo sono importanti e, nella musica, sono parametri ineludibili. Dovendo riportare questa equazione spazio-temporale nel mio mondo ti dico che il senso del ritmo e il senso della forma e della struttura sono alla base della conoscenza e della preparazione di tutti quelli che fanno musica. Bisogna conoscere il ritmo, percepirlo, possederlo, bisogna conoscere i ritmi che, per me, possono essere considerati come le spezie della musica. Oltre alla musica che viene proposta in radio e in televisione c’è un mondo infinito musicale in cui vale la pena curiosare perché la curiosità, che è alla base della creatività, ci porta anche al di là dell’equazione spazio temporale, quindi si vive in un mondo che non ha pareti, che non ha età ed è quello che io spero di continuare a provare per sentirmi libero di agire, senza barriere, infrastrutture. Spero di lavorare al di là degli stereotipi, in assoluta libertà creativa, sentendomi sempre, come dicevamo prima, quel ragazzino di una volta, con quella gioia e quell’entusiasmo che ti fa avere fiducia che stai sulla strada giusta.  

Stereotipo: dal greco “stereos”, rigido, e “typos”, impronta, immagine. Dunque un’immagine rigida. Il termine nasce in ambito tipografico per indicare un metodo di duplicazione delle composizioni tipografiche e arriva ad indicare una certa stagnazione concettuale con cui si interpretano alcune categorie. Stamattina ero alla laurea di Roberta Mafrici, figlia di Antonella, una mia carissima amica. Ha discusso una tesi sullo stereotipo italiano nella pubblicità australiana per prodotti “Italian Sounding”, cioè che sono assonanti con l’Italia ma non sono prodotti italiani e che concorrono a danneggiare l’economia del nostro Paese: “Pasta, pizza and garlic bread: stereotypes and Italian Sounding in Australian advertising”. Ho trovato il lavoro molto interessante e ho deciso di esplorare questa dimensione in una domanda. Infatti, nella musica, lo stereotipo guarda in direzione opposta a quella che sarebbe la direzione naturale tipica della musica, di essere in movimento. Tuttavia, capisco che l’argomento sia complesso e meriterebbe di essere approfondito, non in questo contesto in cui so quanto possa essere stanco un musicista che abbia appena messo la chiave nella toppa di casa e abbia voglia di sbrigare le faccende urgenti in vista di una imminente ripartenza e di rilassarsi. Butto comunque là la domanda.

D. Che rapporto hai con lo stereotipo? Immagino che sia un aspetto in cui tu ti sia imbattuto spesso, sia come italiano, sia come foggiano e quindi come cittadino del sud. A livello musicale che peso ha lo stereotipo?

R. Forse per stereotipi della musica possiamo considerare quello che passa il convento. Quello che ascoltiamo in radio, quello che propone la televisione e soprattutto quello che ci propongono i famosi algoritmi che mettono in movimento certe sonorità sui vari portali di musica a partire da spotify. Personalmente, considerandomi un ricercatore e una sorta di musicologo curioso, non ho mai seguito gli stereotipi. Gli stereotipi li devi seguire e anche rispettare se punti a un certo tipo di musica e ad un certo tipo di mercato. Una volta si diceva: “ci sono le tendenze”. La tendenza si fa moda e la moda produce gli stereotipi che tutti inseguono per ottenere consensi, finché qualcuno propone qualcosa che cambia nuovamente le carte in tavola; e la giostra del mercato ricomincia. Tipo la “tropicalizzazione” diffusa a livello mondiale con il reggae ton. Io credo di essere proprio fuori moda. Se dovessi trovare un’etichetta per me direi che sono “Contemporary old school”. Cioè vivo il presente, senza dimenticare il passato, per essere proiettato nel futuro e credo che continuerò a fare questo. Ho consolidato la mia taratura artistica nel tempo e ci sono arrivato facendo gran fatica e quindi non posso fare altro che continuare a studiare le cose che mi piacciono, ad ascoltare quello che mi piace e quello che mi dà emozione. La differenza tra la musica cosi come veniva registrata un tempo, cioè nell’era analogica, rispetto a quella di oggi, nell’era digitale, è che, una volta, anche in studio di registrazione, si cercava l’emozione, oggi si cerca la perfezione. E, sinceramente, la perfezione, dopo un po’, annoia. Mi proietto nell’evoluzione tecnologica: adesso c’è l’intelligenza artificiale e staremo a vedere che cosa succederà quando la musica sarà creata da macchine. Non credo che riuscirà ad emozionarci cosi come succede quando andiamo a vedere un bel concerto e possiamo fare esperienza personale di tutto quello che la musica riesce a regalarci. E ad incontrare e verificare anche il sudore, le lacrime che un musicista versa su un suo palcoscenico pensando a tutto lo studio e a tutto quello che ha investito per dare il massimo in quel concerto.

Quando fa riferimento all’intelligenza artificiale, Gegè fa una pausa che riempie con un sorriso sonoro di chi si pone la domanda e non riesce a prevedere la risposta. E, pur avendo una sua idea ed essendo un po’ perplesso, si rende disponibile alla scoperta, con curiosità, come da sua indole. Ed è questo suo approccio che agisce nella vita a caratterizzare l’identità musicale di Gegè Telesforo, Un’identità che sta condividendo con la sua band nel progetto Big Mama Legacy: tutto ciò che sono, come musicisti e come band, è al servizio di un incontro reciproco con il pubblico per celebrare la musica e celebrarsi, tutti insieme, con la curiosità di scoprire dove ci porterà la loro musica, a noi che saremo lì e a loro come musicisti con cui condivideremo lo stesso spazio e lo stesso tempo.

D. Cosa ci riservate per il concerto finale del festival?

R. Alla fine della scorsa estate, al termine di una tournée durata quasi due anni, realizzata subito dopo il periodo della pandemia e, proprio per questo motivo intitolata “Impossible tour”, è successo qualcosa che mi ha ispirato e che mi ha fatto nascere dentro un certo desiderio di tornare alle origini del mio percorso musicale. Durante il covid pensavamo proprio che fosse quasi impossibile poter tornare a esibirci dal vivo e fra i brutti sogni che si facevano allora, mi è successo di farne uno che aveva segno opposto e che mi ha rimesso in contatto con qualcosa che avevo dentro. Ho sognato di ritrovarmi al Big Mama Club che, proprio per la pandemia, ha chiuso definitivamente i battenti. Un club che ha sempre proposto grande musica, un club dedicato al blues nel centro di Trastevere, a Roma, dove ho fatto tanti concerti. Sognai proprio di essere al Big Mama in una Jam Session scatenata con alcuni dei miei amici musicisti e alcuni anche scomparsi da un po’ di tempo. Così, una volta rientrati dall’Impossible Tour, ho pensato di mettere su un organico, coinvolgendo alcuni tra i migliori talenti della nuova generazione del nostro Paese: musicisti strepitosi, giovanissimi, preparatissimi, con la grande voglia di fare buona musica e di mettersi in gioco con un artista che ha l’età dei loro genitori. Anche più grande dei loro genitori. Musicisti che vanno dai 23 ai 28 anni. Fantastici. Li ho radunati, abbiamo fatto le prove, abbiamo creato un repertorio nuovo scrivendo nuova musica che abbiamo appena finito di registrare e siamo in ballo con un tour. Il nuovo album che si intitolerà proprio Big Mama Legacy, così come il progetto che portiamo dal vivo, sarà pubblicato nei primi mesi del 2024 dalla Ropeadope, casa discografica americana, che ha ascoltato il materiale e Louis Marks, il presidente della Casa Discografica è impazzito e quindi abbiamo chiuso questo contratto con loro. Siamo già in tournée dall’inizio di gennaio, abbiamo fatto una stagione teatrale spettacolare che ci ha dato tante emozioni e tanta soddisfazione: un concerto dopo l’altro, abbiamo messo a punto questo evento musicale di groove, funk, blues, improvvisazione, Il concerto è molto ben strutturato, pieno di energia, con momenti di improvvisazione travolgenti. E questi musicisti che sono uno più forte dell’altro, anzi non saprei dirti quale sia il mio preferito: sono insieme, compatti. Questo è l’aspetto che mi piace di più. Michele Santoleri alla batteria. Incredibile, perché coniuga tutto, dal jazz, al funk, allo shuffle, al blues, all’afro-beat, all’hip-pop, a tutto quello che può suonare un musicista che è diplomato in percussioni sinfoniche. Christian Mascetta alla chitarra, uno dei migliori chitarristi in circolazione e, al tempo stesso, è un compositore, arrangiatore e producer. È con lui che ho prodotto questo nuovo album. Vittorio Solimene, figlio d’arte, figlio del maestro Antonio Solimene, all’organo e alle tastiere. Lo conobbi quando aveva 16 anni perché partecipò a una mia Master Class al St Luis College di Roma e in quell’occasione gli promisi che un giorno ci saremmo ritrovati a fare musica insieme. Ed è arrivato. Sono felicissimo di averlo coinvolto, sia per il suo talento e sia perché, non avendo il bassista, Vittorio con organo e tastiere funge anche da bassista, segue le linee di basso ed è strepitoso sentirlo. Infine, last but not least, i due gemelli Cutello. Matteo Cutello alla tromba, Giovanni Cutello al sax contralto. Entrambi sono ormai annoverati tra i migliori talenti del jazz italiano, laureati al Berkley College of Music di Boston con il massimo dei voti, dopo 4 anni di studi fatti lì dove hanno ottenuto il full-credit per merito, ovvero il Berkely College ha pagato per loro la retta completa per i 4 anni di studi e oggi volendo potrebbero anche insegnare al Berkely College e hanno 24 anni. Li ho incontrati per la prima volta quando ne avevano 13, a Messina, durante un festival jazz. Ecco questa è un po’ la storia della band di Big Mama Legacy e sono felicissimo di tornare al Trasimeno Blues Festival dove mi sono esibito diverse volte in passato. Tornare con questo progetto, con questo organico è per me una particolare gioia e mi auguro che sia una gioia anche per chi verrà ad ascoltarci. Non vedo l’ora di essere lì con voi. Ringrazio Trasimeno Blues, ringrazio te e tutto il pubblico di questa manifestazione così speciale.

Questa band ha un suono peculiare tutto suo, il suo suono, unico e originale. Pur ispirandosi alla tradizione del blues interpreta la sonorità blues in una visione contemporanea e originale e spazia in altri generi per tornare al blues. Soprattutto, porta con la musica quell’aria di festa che ci unisce e ci fa stare bene. Mi piace pensare al Big Mama Legacy come ad un incontro magico in cui la saggezza del musicista sessantenne che non rinuncia alla voglia di vivere e di divertirsi e la giovinezza di musicisti che hanno capito per tempo quanto divertirsi suonando insieme non abbia prezzo, si fondono e creano uno spettacolo coinvolgente, pieno di festa e di voglia di stare insieme, offrendo brani inediti e non selezionati a misura per garantire il successo della serata in cui tutti si riconosceranno in quel potere della musica a cui non si può resistere. Il motto è: “Con la musica, per la musica, nella musica”. La festa arriverà ed è tutta da vivere.

(M.P.)

P.S.: Un grazie speciale a Roberto Cifarelli per la foto in cui è ritratta tutta la band.