TRA IL GOSPEL E IL BLUES C’E’ DI MEZZO IL SOUL: IL CONCERTO DI FATIMAH PROVILLON E LA SUA BAND

TRA IL GOSPEL E IL BLUES C’E’ DI MEZZO IL SOUL: IL CONCERTO DI FATIMAH PROVILLON E LA SUA BAND

Arrivo alla serata di debutto di Trasimeno Blues 2023 dopo essermi consegnata a luoghi sperduti e incontaminati alle porte di Roma, presso La Terra dei Fichi (a cui si arriva per contatto diretto o per passa parola) e al B&B Le Rondinelle nei pressi di Spoleto, entrambe realtà gestite da carissimi amici con cui ho ritrovato antichi sapori della mia vita passata, affetti, emozioni, intenti, sogni da raccontare e ascoltare. Nell’ultimo tratto, sopraffatta dal caldo, ho deciso di concedermi un bagno al primo lago a portata di mano. Arrivo a Piediluco, raccatto un telo e un costume dalla valigia e mi infilo nella prima spiaggia che trovo, imbattendomi in un cartello con l’informazione che bisogna pagare un biglietto. Mi dirigo alla biglietteria e, in modo diretto, chiedo: “Mi accogliete per un bagno e un’asciugata”? La signora Tiziana, con un sorriso empatico, tipico di chi sente di aver compreso perfettamente la richiesta, mi risponde in tono leggero: “Certo” poi si rende conto di aver esagerato in disponibilità e chiarisce: “E’ un’eccezione”. Ringrazio e mi vado a buttare nell’acqua gelida e rigenerante del lago. Una nuotata, mi asciugo al sole e riparto, non senza cercare la signora per restituirle il benefico effetto della sua generosità: “Mi ha reso felice. Grazie. Come si chiama questa spiaggia?” chiedo, perché me lo voglio ricordare. “Il Velino” e mi congedo rigenerata. Riprendo la strada, senza fretta e mi godo il panorama. Si susseguono colline verdissime, boschi, piccoli borghi in pietra, distese di girasoli, campi di grano mietuti, ancora dorati, campi coltivati, tratti in cui gli insediamenti umani scompaiono per poi riapparire in case singole o agglomerati sparsi qua e là, spesso in pietra, come ad enfatizzare una dimensione decontestualizzata dal presente. Il caldo arroventato è forse la ragione per cui non c’è nessuno in giro. La strada, metafora della vita, assume dimensioni e forme diverse. A volte si allarga, si spiana, a volte si stringe, nel suo salire e scendere dalle colline umbre, ondeggia con disinvoltura tra curve e rettilinei. Questa varietà mi anticipa l’identità canora di Fatimah Provillon: una voce inconfondibile, avvolgente che mi cattura già dalle prove. Arrivo alla Cantina di Monte Vibiano che la band sta ultimando il sound check. Mi vengono incontro sonorità morbide in assonanza con il gran caldo che non cede neanche all’arrivo del tramonto. La prima persona che incontro è Andrea Dini, direttore organizzativo del Festival, sempre affabile e attento a che tutto proceda al meglio per garantire il successo della serata. Dopo qualche minuto rivedo con piacere Giuseppe Schipano, manager della Cantina anche quest’anno, con visioni lungimiranti nel contesto ristorazione. Ci aggiorniamo sulle reciproche novità per poi dirigerci ognuno alle proprie mansioni, lui ad organizzare e gestire la cena, io alla ricerca della band per un paio di domande prima del concerto.

Finalmente la luce del giorno consegna tutto e tutti all’imbrunire, una leggera brezza fresca attiva un certo brio nei corpi. La ribalta si accende sulle prime note del concerto che questa sera si avvale del contributo tecnico di Maurizio Paolacci, il fonico storico di Trasimeno Blues, riferimento assiduo della qualità del suono nei primi 15 anni di Festival. Agli esordi, in cui le attrezzature non erano al massimo, Maurizio era in grado di farle funzionare come se fossero di ultima generazione. Introduce la serata Andrea Dini che dà il suo benvenuto alla 28esima edizione di Trasimeno Blues, aprendo le porte alla magia di questa settimana tutta musicale che, da sempre, ha un sapore genuino. Andrea ringrazia Camilla e Lorenzo Fasola proprietari della Cantina di Monte Vibiano in cui da diversi anni esordisce il festival nella sua prima serata in programmazione. Infine, segnala i principali appuntamenti, dal concerto a Panicale dei Blue Stuff, alla proiezione del docufilm “realizzato lo scorso anno proprio a Trasimeno Blues e che sta vincendo diversi premi a livello internazionale in festival dedicati”, a Luke Winslow King e Roberto Luti con il loro “blues ad ampio respiro”, all’attesissimo concerto di Sugaray Rayford di venerdì, alla serata conclusiva con l’esplosivo concerto di Gegè Telesforo – Big Mama Legacy. Infine, annuncia Fatimah Provillon. La band esordisce con un groove accattivante. Fatimah arriva sul palco e saluta il pubblico: “Hello everybody. Stasera un po’ di blues, funky, soul”. Sulle prime note del brano, “Born under a bad sign” di Albert King, si interrompe la corrente, ripristinata dopo pochi secondi. Il tempo di lasciarci un attimo in suspence e la musica riprende a pieno ritmo con la voce di Fatimah la cui potenza ci accompagna per tutta la durata del concerto. Fatimah è fantastica: nella sua voce, nella sua personalità artistica e umana, dotata del fascino che le deriva dal contenere in sé un miscuglio di culture diverse. Del New Jersey con origini che si perdono nella notte dei tempi di cui ne conserva intatto il mistero, italiana di adozione, Fatimah Provillon ha un cuore soul, naturale evoluzione della sua matrice gospel. Tutti i generi musicali che incontra, vengono rapportati a questa identità e ne subiscono gli effetti nell’interpretazione, con un risultato interessante, fatto di sospensioni e alterazioni di groove rispetto a quello che, tradizionalmente, connota ogni singolo genere o brano nella versione originale. È nata nel gospel in cui è immersa praticamente da sempre. “Ho il ricordo di quando eravamo in Sud Carolina dove abbiamo vissuto per diversi anni e mia nonna mi portava in Chiesa. Ci ho passato tantissime ore. Ripensandoci, ci ridiamo su, perché la Messa e le funzioni religiose duravano tante ore, eppure ti divertivi”, mi racconta Fatimah prima del concerto, quando abbiamo modo di fare due chiacchiere, mentre cerchiamo di gustare un bicchiere di buon vino della Cantina. Il gospel coinvolge per il modo di essere in contatto con Dio, in un’apertura di cuore corale, condivisa con la comunità. Nelle chiese gospel si attiva un’educazione che affina sempre di più la tecnica vocale. Ed è quasi un dovere saper cantare. “Ci sono dei momenti in cui nei cori c’è la persona meno dotata. L’educazione cristiana aiuta ad accogliere, ad incoraggiare, applaudire alla messa in gioco” anche se conoscono tutti la differenza tra un applauso di incoraggiamento e un applauso di apprezzamento. Fatimah è ironica e ridiamo spesso nel breve scambio prima del concerto. È simpatica e aperta, oltre che talentuosa. Riesce a viaggiare tra i diversi generi che gravitano intorno al gospel e al soul. “Nella musica afroamericana, negli spirituals, non ci si limita solo a cantare, si coinvolge anche il corpo, si canta e si muove la mano, ci si sposta con il corpo avanti o indietro, si mandano messaggi. Gli spirituals erano anche un modo di incontrarsi per fuggire alla schiavitù: incontriamoci per scappare da un’altra parte. Per me il gospel rappresenta le fondamenta del mio modo di fare musica, tutto il resto l’ho costruito dopo. Il gospel è il primo genere musicale che ho conosciuto ed è il riferimento per tutto”.

Il concerto, in effetti, fa viaggiare il pubblico tra sonorità prevalentemente soul e blues tradizionale, in particolare blues elettrico di Chicago e qualche classico di Robert Johnson. “Abbiamo una scaletta orientata sulla soul music, etichette di riferimento “Chess Records”, Stax” e “Motown”. Stasera, dato il contesto, abbiamo aggiunto qualche brano blues più tradizionale” mi racconta il chitarrista, Dario Cirillo, prima del concerto, confessandomi che tutti i membri della band sono appassionati di soul music e riconoscono a Fatimah il merito di averli instradati senza ritorno in questa direzione. Si conoscono tutti da una decina d’anni. “Siamo prima amici e poi musicisti al servizio della sua voce”, continua Dario. “Fatima ha una voce potente, intensa e, soprattutto, canta la sua musica: è cresciuta in Chiesa, nel New Jersey e quindi ha fatto la gavetta vera di gospel e di soul” e sottolinea che sono onorati di essere in cartellone a Trasimeno Blues con la storia consolidata del festival. Vivono tutti a Roma, anche se, sia il chitarrista che il batterista sono ciociari, della provincia di Frosinone, il bassista è “romano de Roma” e Fatimah è “romana di adozione, mangia pane e mortadella, supplì, fiori di zucca ripieni e parla romanesco, ormai l’abbiamo adottata”, ironizza Dario, mentre i suoi occhi tradiscono l’emozione di essersi trovati a condividere un sogno musicale che funziona e appassiona.

Il concerto prosegue con un susseguirsi di brani emozionanti: “Call It Stormy Monday” di T-Bone Walker “When love comes to town” di BB King, “I heard it trought the grapewine” di Marwin Gaye, “Sitting’ on the dock of the bay” di Otis Redding, “When you got good friends” di Robert Johnson, “I put a spell on you” di Jay Hawkins, “Inner city blues” di Marvin Gaye, “Ain’t no sunshine” di Bill Wither. Fatimah intervalla i brani con alcune condivisioni narrative: “Mia nonna, è ancora in vita, ha quasi 91 anni, è nata nel 32, come Rey Charles. Per lei, il rock, il soul, tutte le musiche che non sono gospel sono blues, la musica del diavolo. Anche la musica classica. A lei non gliene frega niente: o è gospel o è blues. Quando le chiedo il perché, lei non dà spiegazioni. Il suo cuore distingue tra queste due sole categorie.” Mentre racconta, Fatimah si abbandona a sorrisi sonori e le parole sono intervallate da intense pause. Si avverte che è emozionata: mi faccio la fantasia che, oltre a connettersi con l’amore ricevuto incondizionatamente dalla nonna, stia pensando a quando la potrà rivedere, in questo count-down impietoso della vita, con gli anni che passano senza nessuna pietà. “Io non vi vedo, per via delle luci, ma vi sento nel mio cuore. Dicevo: il blues parla di tutto, mentre il gospel parla della fede e di Gesù. Mia nonna non canta blues, canta gospel”, lasciando intendere che per sua nonna, essere una buona fedele, significa rifiutare tutto ciò che esuli dalla Chiesa. Altra generazione, altra cultura. E tutte queste emozioni vengono consegnate alle note dei musicisti e alla voce di Fatimah. Quando introduce un ulteriore brano di Marvin Gaye, ci riporta ai problemi di tutti i giorni che riguardano tutti in ogni epoca. “Una classica canzone soul che entra nell’anima e parla di tutti i problemi che c’erano negli anni ’60, ’70, ’80, ’90, 2021” e sorride, specificandone la ragione: “Insomma, unfortunatly, siamo sempre lì. Le tasse alte, la guerra, sembra familiare, sembra qualcosa che purtroppo ci sia sempre. La canzone di allora, è comunque la canzone di oggi”.

Riprende la musica che scorre tra profondità vocali (in cui la parte strumentale fa del proprio essere a servizio della voce il proprio stile musicale) e altezze vocali in cui il timbro di Fatima si assottiglia e vola in alto. I musicisti si giocano in una essenzialità interessante che permette alla voce di Fatima di espandersi nello spazio e di permettere al pubblico di poter gustare le sue sfumature stilistiche e interpretative, giocando tra grinta e avvolgenza. Commuove quando fa riferimento alle legende del blues che ormai non ci sono più, diverte quando ringrazia il pubblico con ironia o quando presenta i musicisti. Le sue origini, etniche e culturali si agganciano a qualcosa di antico, di mistico. Il suo cognome tradisce una provenienza francese, il suo nome è di matrice araba, è nata e ha vissuto negli Stati Uniti e ora in Italia. È come se la musica la rappresentasse in tutte le sfumature culturali che la connotano e le conferisca una grinta che si afferma di per sé. “Quando canto, sento che la gente risponde, al di là della lingua, della cultura di appartenenza. La musica arriva. Per esempio, ho amici che fanno musica persiana e quando suonano io sono lì rapita, anche se non capisco le parole o quella determinata struttura musicale. Eppure si sente la sofferenza, la gioia, la rabbia, tutto quello che esce dal cuore. E viceversa, quando loro vengono ad ascoltare me”.

Sono affiatati e comunicano tra loro condividendo l’idea che, affinché le sfumature artistiche emergano, è necessario fare spazio, evitando di saturarlo con virtuosismi ostentati. Fatimah e il suo gruppo sono in questo tipo di ricerca musicale. Per Dario, chitarrista e voce corista, è essenziale l’ascolto dell’american music per crescere come artisti di genere. È convinto che in mancanza di tale background dall’Europa non si riesca a creare un buon sound. Come del resto, sul palco, è fondamentale l’ascolto tra gli artisti, captare quello che succede nel qui e ora e trasformarlo in una creazione.

La serata è molto piacevole, le persone si godono la cena, il buon vino e l’ottima musica. Si coinvolgono, anche se questo arriva poco sul palco, diluito dal tipo di illuminazione, dalla distanza tra pubblico e band e da uno strano effetto acustico per cui il pubblico si sente poco. Così, gli artisti sono chiamati a tirare fuori tutta la loro energia.  E Fatimah lo fa. Nella sua interpretazione, come anche in quella della band, c’è un approccio di ricerca: “Se si fa musica, bisogna uscire dalla zono di comfort, non bisogna stare comodi. La musica, come tutte le forme d’arte, non è comoda”. Questo concetto mi commuove perché mi mette in contatto con la generosità dell’artista. Fatimah predilige il soul perché lo trova più adatto ad esprimersi con la voce, mentre nel blues è la chitarra ad avere questa opportunità.

Il concerto prosegue attraversando brani cult del bluse e del soul: “I got the Just kissed my babe”, “Don’t let me be misunderstood”, “Come into my kitchen” di Robert Johnson, “My babe” di Little Walter, “It’s a man’s world” di James Brown, “I got a woman” di Rey Charles, “Living for the city” di Stevie Wonder, “Let’s stay together” di Al Green. Non mancano gli assoli e ci sono un paio di momenti rap con messaggi forti: “No justice, no peace”. I botta e risposta con il pubblico non si prestano molto a questo tipo di contesto anche se Fatimah non vi rinuncia, tirando fuori tutta la sua grinta. In alcuni brani, Fatimah raggiunge livelli di intimità vibranti, quasi recitati, enfatizzati musicalmente da un rallentamento ritmico che crea un effetto di forte empatia musicale.  

Ad Andrea Sabatino, bassista della band, chiedo che aria tira a Roma musicalmente. “Ogni città sviluppa una propria forma di blues, a Roma si sente moltissimo l’influenza del soul e del funk. Noi mescoliamo varie ritmicità tipiche di questi generi. Nel suo modo di suonare, Andrea ha particolare cura per la ricerca del suono più che delle note. Così viaggia tra sonorità più morbide, rotonde, calde del soul e sonorità puntate con più attacchi, con più gioco ritmico a seconda del tipo di brano che diventano un riferimento per tutti. “Creiamo dei momenti di improvvisazione e cerchiamo di coinvolgerci e di divertirci sul palco. Ci sono brani in cui si può giocare. Non tutti i brani si prestano, ne selezioniamo alcuni che non hanno giri armonici elaborati si può partire con parti solistiche. Ogni strumento ha le sue frequenze. La ritmica è fondamentale in questi generi di musica black soprattutto: giocare con il batterista aiuta il cantante a sentirsi supportato nel brano e il chitarrista a sentirsi più libero di esprimersi. Amo i brani in cui il basso ha un maggiore protagonismo (Marvin Gaye, Stevie Wonder). Quando ho iniziato a suonare, li andavo a cercare. Avevo 13 anni. Sono cresciuto in una famiglia di musicisti amatoriali che, anche se non erano professionisti, mi hanno fatto ascoltare tanta musica, anche non strettamente blues o soul, tipo Van Halen, Toto, Michel Jackson, Bryan Adams. Ho scelto il basso perché erano tutti chitarristi. Il basso è antagonista della chitarra. Nasce da un progetto chitarristico che si è evoluto in una sua strada ben precisa ed è lo strumento che mi permetteva di accompagnare sia ritmicamente che con delle note i miei cugini che erano chitarristi. Era una scusa per suonare insieme e mi sono trovato in un viaggio che mi ha fatto scoprire tantissime tecniche che si possono applicare allo strumento (l’uso del plettro, la tecnica percussiva dello slap per esempio). Poi ho maturato la volontà di studiare sul serio e trasformare la mia passione per il basso in un lavoro.”

Il pubblico è in un clima disteso, sparso sull’erba o ancora ai tavoli della cena, mentre le note blues e soul di Fatimah e della band, risuonano nella prima notte di Trasimeno Blues, affidandosi al ritmo scandito dalla batteria di Federico Protano. “Suono una batteria essenziale, una grancassa del ’68, quindi ha quasi 60 anni alle spalle. Una batteria minimale che funziona per il genere che facciamo, molto crudo in cui l’essenzialità è quello che poi ti fa battere il piede, il groove. Togliere elementi di distrazione e ritornare a un qualcosa che si avvicina di più alle radici funziona meglio nelle cose che facciamo. La semplicità è un valore aggiunto. Come dicono gli inglesi, “less is more”. Almeno per noi; magari negli ambienti della musica classica non è cosi, per noi è un valore aggiunto. Per questo tipo di genere, la batteria (come il basso del resto) è uno strumento di accompagnamento, anche se negli anni è diventato anche uno strumento solista. Per il tipo di musica che facciamo, gioca prevalentemente un ruolo gregario anche se, per tutta la spinta, il groove, il tappeto ritmico che mette a disposizione, è fondamentale: tutto nasce da lì. Cerco di essere prima ascoltatore e poi musicista, di valorizzare gli strumenti solisti, tipo la voce, la chitarra. Mi oriento a togliere per permettere di apprezzare di più le sonorità”.

Finalmente Fatimah canta Breathe, il brano che ha composto che, nonostante l’assenza dei fiati, coinvolge sia come melodia che come atmosfera. Il pubblico si ritrova in un gioco di cori e armonie, intenso anche se timido. E poi, ancora brani cult. Sulle note dell’ultimo brano, Fatimah presenta ancora una volta i musicisti, condividendo con il pubblico gli appellativi amicali con cui si chiamano tra loro e, a richiesta del bis, il concerto si conclude con un maddley in cui il pubblico si concede di ballare e cantare: “Love and happiness” di Al Green, “Master Blaster” di Stevie Wonder e “Come together” dei Beatles, mischiate insieme, “Superstition” di Stevie Wonder. Le luci del palco si abbassano e le stelle applaudono grate suggerendo a noi quaggiù che, alla fine, la buona musica trascende le categorie e arriva dritta al cuore perché possa ricordare sempre a tutti noi che non siamo soli, in questo “insostenibile, leggero” (citando Kundera) oscillare tra essere tutti un po’ gospel e un po’ blues.

(M.P.)